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venerdì 3 dicembre 2010

Petrolio, fortuna o maledizione? Il Ghana ci prova

Il Ghana festeggia. Fra pochi giorni il Paese a fricano entrerà ufficialmente nel club esclu sivo dei fornitori di petrolio. Il prossimo 17 di cembre avrà inizio la produzione nel progetto Ju bilee, l’attesa fase del 'first oil'. Il giacimento marino, scoperto nel 2007, contiene riserve stimate in 1,8 miliardi di barili. L’estrazione sarà inizialmente di 120.000 barili giornalieri, per salire a 250.000 nel 2013, quando il nome del Ghana campeggerà nella classifica dei 50 maggiori produttori globali.


Le ricadute economiche di questo colpo di fortuna dovrebbero proiettare il Paese verso la fascia mondiale di medio reddito, al pari di Egitto e Iran, dallo status di basso reddito in cui si trova attualmente come l’Afghanistan e Haiti. Il traguar do, secondo il Fondo monetario internazionale, sarà tagliato in un decennio. Già nel 2011 però la crescita del Pil dovrebbe raddoppiare al 9,9%. Anche se è meno di quanto ci si aspettasse inizialmente (+20%), si tratta comunque di un discreto balzo in avanti. Ma il Ghana è appunto un debuttante. E come è accaduto per altri Stati petroliferi, soprattutto nel l’Africa subsahariana, una attraente opportunità può trasformarsi in una maledizione. La nuova industria non dovrà sostituirsi agli altri settori trainanti dell’economia, nel caso del Ghana le importanti produzioni di oro e cacao. Inoltre, il governo dovrà tenere alta la guardia contro possibili episodi di corruzione, organizzare la gestione dei proventi del petrolio e trasferire alla popolazione la maggiore ricchezza possibile. Non da ultimo dovrà coltivare buoni rapporti con le com pagnie incaricate dell’estrazione. Ed è proprio questo il maggiore ostacolo per le autorità ghanesi.



Il greggio che giace nelle profondità del Golfo di Guinea è ancora conteso dagli Stati Uniti, che già controllano una parte del progetto, e dalla Cina, che non vede l’ora di entrarci. La stessa compa gnia statale ghanese sgomita per allargare la pro pria partecipazione. La battaglia cominciata un anno fa per rilevare una quota del 23,5% non si è ancora conclusa. A metterla in vendita è stata nel 2009 una società texana, Kosmos Energy. Le altre quote appartengono alla britannica Tullow Oil, che gestisce il progetto, all’americana Anadarko e in misura minore alla azienda locale Gnpc. Kosmos è in parte controllata dai gruppi di private equity Blackstone e Warburg Pincus. Il colosso a mericano Exxon Mobil, che aveva messo sul piatto 4 miliardi di dollari, si è ritirato l’estate scorsa, pare anche in seguito alle pressioni del governo ghanese. A fine ottobre è arrivata finalmente una controfferta, frutto dell’alleanza tra la compagnia statale ghanese e la cinese Cnooc, un colosso delle esplorazioni in mare aperto. Le due imprese hanno messo sul piatto 5 miliardi. Ma a quel punto Kosmos ha fatto sapere che non era più interessata a vendere. Le ragioni del cambiamento di programma non sono state rivelate. Benchè Kosmos sia una società privata relativamente piccola, il sospetto è che siano intervenuti interessi nazionali. Gli americani insomma non vorrebbero mollare la presa, in quella che è ormai una gara con Pechino per il controllo delle risorse africane.



Per il momento però, perché i cinesi non sono sprovveduti. Nei mesi scorsi due banche di Pechino hanno pre stato al Ghana oltre 13 miliardi di dollari, cemen tando così ulteriormente le relazioni con il Paese africano. La China Export Import Bank ha offer to 10,4 miliardi per la realizzazione di infrastrutture, mentre la China Development Bank ha concesso un prestito separato di 3 miliardi proprio per sviluppare l’industria petrolifera. Si prevede che Accra eserciterà pressioni affinché l’azienda americana torni sui suoi passi. Non si esclude una nuova offerta al rialzo. La Kosmos, spiegano gli analisti, è specializzata nelle esplorazioni econo micamente rischiose e, quando compie una scoperta, intende ricavarne il massimo profitto. Alla fine potrebbe dunque cedere. Secondo Rolake Akinola, un esperto di rischio politico, la nuova of­ferta «non arriverà a breve, ma le discussioni con tinueranno. Questa storia non finisce qui».
Le rotte del pallone sono davvero infinite e i più ricchi non piangono mai. Che i Mondiali del 2018 sarebbero andati alla Russia, per le logiche perverse del calcio-business, e non solo, sapevamo che, anche sulla scia degli Europei del 2012 in Polonia-Ucraina, poteva accadere. Ma che il Qatar avrebbe piegato la concorrenza degli Stati Uniti (oltre agli outsider Giappone Australia e Corea del Sud) per portarsi nel deserto il Mondiale del 2022, tutti credevano che sarebbe rimasto un miraggio e nulla più. 

E invece ieri a Zurigo, le votazioni “magiche” della Fifa che pende ancora dalla volontà del megapresidente Sepp Blatter, ha regalato una gioia immensa alla Russia di Putin e al Qatar degli emiri. Il miraggio è diventato realtà; quello del primo Paese arabo ad organizzare l’evento calcistico per antonomasia. Alla terza votazione il Qatar ha stracciato gli Usa di Barack Obama (14-8) che ha sentenziato: «Una scelta sbagliata quella della Fifa...». Il Qatar non raccoglie e tra un decennio sarà il più piccolo stato (appena 550mila abitanti) a mettere in piedi la kermesse planetaria del pallone. Stupori e miserie del terzo millennio. 

Ma del resto chi mai avrebbe immaginato che nel 2014 i Mondiali sarebbero planati tra le favelas del Brasile? Neppure Assange e il suo WikiLeaks avrebbero mai prospettato uno scenario brasiliano. Rio de Janeiro invece si concederà il lusso di un Mondiale di calcio, seguito da una coda olimpica, nel 2016. Il calcio da sempre non segue logiche sportive, ma è legato a doppio filo alla politica e ai movimenti della finanza internazionale.

Perciò non spiazza certo come un rigore calciato da Messi, il fatto che la Russia dei gasdotti abbia spazzato via la concorrenza dell’Inghilterra, la madrepatria del football che aveva fatto scendere in campo anche il Principe William per tentare il bis: Olimpiadi di Londra 2012 e Mondiali del 2018. Il premier russo Vladimir Putin alla notizia del successo di Mosca è volato a Zurigo annunciando: «Voglio ringraziare personalmente i membri del comitato esecutivo e parlare già dei dettagli per l’organizzazione dell’evento. 

Ci sarà molto da fare, stadi, aeroporti, hotel e strade, ma ce la faremo». La gioia di Putin esonda fino ai gasdotti e i pozzi di petrolio di Doha, la capitale del piccolo grande Qatar. «Grazie per avere allargato i confini del calcio e per aver dato un’opportunità al Medio Oriente, non ve ne pentirete», è stato il primo commento rivolto alla Fifa di Mohammed bin Hamad Al-Thani, presidente del comitato del Qatar. 

L’emiro Hamad ben Khalifa per il grande giorno di Zurigo ha smesso il tradizionale mantello e copricapo bianchi e ha indossato un elegante gessato grigio. E sotto l’abito che non fa l’emiro ha proclamato: «Siamo piccoli e per molti ancora quasi sconosciuti, ma il mondo sentirà parlare del Qatar perché siamo capaci di compiere grandi imprese». 

La prima impresa è stata quella di mettere in ginocchio gli Stati Uniti. Così come la Russia ha fatto piangere Londra e il testimonial di sua maestà, David Beckham, si è giustificato davanti alla nazione: «Chiediamo scusa a tutti gli inglesi perchè non potremo ospitare il più bell’evento sportivo al mondo».

US embassy cables: Latin American unity summit descends into acrimony


Friday, 26 February 2010, 19:23
C O N F I D E N T I A L SECTION 01 OF 03 MEXICO 000141 
SIPDIS 
NOFORN 
DEPARTMENT FOR WHA DAS JACOBSON, MEX LEE AND PPC NSC FOR RESTREPO AND O'REILLY 
AMEMBASSY BRASILIA PASS TO AMCONSUL RECIFE 
AMEMBASSY OTTAWA PASS TO AMCONSUL QUEBEC 
AMEMBASSY BRIDGETOWN PASS TO AMEMBASSY GRENADA 
AMEMBASSY ATHENS PASS TO AMCONSUL THESSALONIKI 
AMEMBASSY BERLIN PASS TO AMCONSUL DUSSELDORF 
AMEMBASSY BERLIN PASS TO AMCONSUL LEIPZIG 
EO 12958 DECL: 2020/02/26 
TAGS PREL, OAS, KSUM, KPIN, CACM, CDB, XM">XMXR">XR,XS">XSXL">XLMX 
SUBJECT: Mexico's Latin American Unity Summit --
Back to the Future? 

DERIVED FROM: DSCG 05-1 B, D
1. (C) Summary: Mexico's ambitious plan to use its final Rio Group Presidency Summit (Cancun 22-23 February) to create a new more operational forum for regional cooperation failed dramatically. The two-day event was dominated by press accounts of ALBA country theatrics and their usual proclivity towards third world, anti-imperialist rhetoric. Nothing practical was achieved on the two pressing regional priorities - Haiti (President Preval did attend but the discussion was an obscured footnote) and Honduras (Pres. Lobo was not even invited in deference to Venezuela/ALBA) - and Brazil and the ALBA countries outmaneuvered the Mexicans, leaving the details of the new organization in the hands of a Latin American and Caribbean Summit (CALC) structure that will be managed by Brazil and Venezuela in 2011. End Summary

2. (C) Notwithstanding President Calderon's best intentions to create a more practical regional forum for regionally dealing with Latin American priorities (ref A), Mexico's Latin American Unity summit in the tourist resort of Cancun (22-23 February) was poorly conceived, inadequately managed, and badly executed. The Cancun Declaration presents a long laundry list of issues without specifying any details on how they will be operationally translated into effective international action. The meeting did not agree on a name for the new organization (see below), on a date for when it will be launched, or on any practical details (secretariat, funding, etc.) that would indicate how the new organization would develop. Worse yet was the press play and unofficial commentary from informed sources, that were downright derisive of the meeting and the contradictory message it sent about Mexico's interests and foreign policy.
3. (C) Already at the ceremonial opening on Monday (22 February) it was clear that things were not going well. Negotiations on the declaration had ground down on the operational details of the communique and Brazil and the ALBA countries were firmly resisting Mexico's proposal that the new forum be constituted immediately with agreement on institutional details. Brazilian President Lula did not want to see the CALC be subsumed before the end of his Presidency and Venezuelan President Chavez wanted to leave his CALC Summit (Venezuela assumes the CALC Presidency from Brazil in 2011) on schedule, and available for a grand launching of the new forum that, as he said to the press, would commemorate the realization of the Bolivarian themes of Latin American solidarity in the birthplace of the "Great Liberator." Chavez was his usual, over the top self in proclaiming the death of the Organization of American States (OAS), in lending a hand to Argentine President Kirchner's protest against British drilling for oil in the Malvinas, and in almost coming to blows with Colombian President Uribe over the latter's protest of Venezuela's economic embargo against Colombia. Bolivian President Morales played the supporting role as Chavez' factotum, parroting Chavez' speeches and lavishing praise and compliments on Raul Castro's Cuba. Ecuadorian President Correa used the meeting to try and divert money laundering allegations leveled against Ecuador, by suggesting the need for a new "more balanced" regional mechanism to address the issue.
4. (C) Even Calderon's own PAN party officials were privately dismissive of the event. PAN international affairs coordinator Rodrigo Cortez characterized the meeting as a "sad spectacle that does nothing to project our party's views on international priorities and the importance of the relationship between Mexico and the United States." He decried the public images of Calderon "hugging and cavorting" with Chavez, Morales and Castro and was pessimistic from the start that anything practical would come from the meeting. "We did not even invite Honduras, leaving them out of the meeting in order to ensure ALBA participation - a decision that turned the meeting upside down with regard to our concrete security and other interests."
MEXICO 00000141 002 OF 003
5. (C) The low point of the meeting was the verbal exchange between Uribe and Chavez at the opening day official lunch. Uribe raised Venezuela's economic embargo on Colombia, terming it unhelpful and inconsistent with the region's economic interest and at odds with Venezuela's strong criticism of the U.S. Embargo on Cuba. Colombia's Ambassador in Mexico, Luis Camilo Osorio, told the polmincouns that, contrary to press accounts, Uribe raised the issue in a non-confrontational way. According to Osorio and press accounts, Chavez reacted emotionally accusing Colombia of having sent assassination squads to kill him and ended a verbal and physical tirade with "You can go to hell; I am leaving (the lunch)." Uribe responded, "Don't be a coward and leave just to insult me from a distance." Verbal and body language continued to escalate, until Raul Castro stepped in to urge civilized discussion. Outside of the dining room, Venezuelan security officials were scuffling with Mexican security guards in an attempt to assist their President.
6. (C) Osorio was very critical of the Summit, terming it the worst expression of Banana Republic discourse that blames all of the regions problems on others without any practical solutions of their own. Osorio said the Colombians had proposed working jointly on a concrete agenda during Calderon's recent visit to Colombia. The Mexicans, he said, were not interested, confident that they had everything under control. Osorio opined that "Calderon had simply put a bunch of the worst types together in a room, expecting to outsmart them. Instead, Brazil outplayed him completely, and Venezuela outplayed Brazil." There was no practical planning, there was no management of the agenda, and there was none of the legwork that would have been needed to yield a practical and useful outcome.
7. (C) Brazilian DCM Antonio Francisco Da Costa E Silva Neto conveyed his country's view that Brazil had done a better job of managing the summit than the Mexican hosts. Brazil was able to ensure that the new Rio Group would emerge, not from the Summit, but from ongoing discussions in the Rio Group and the CALC, where Brazil could exert its influence. The CALC survived and Brazil would be managing that process as part of the troika when it turned over the presidency to Venezuela.
8. (C) We heard similar themes from ex-Ambassador Jorge Montano, a PRI-connected, former respected senior Mexican diplomat. He echoed Cortez' criticism, channeling it into an elegant but critical op-ed in Mexico daily Universal (Feb 26). Montano's piece, entitled "With or Without the OAS," reviewed briefly the history of Latin American regional forums, also criticizing U.S. lack of attention to the region (e.g. Summit of Americas) but noting the practical achievements realized in the OAS. He called the Summit unnecessary and inconsistent with Mexico's interests and called for immediate damage control. Montano told us that he received separate calls from Calderon and from Foreign Secretary Espinoza, irate over his criticism.
9. (C) The media coverage did not in any way suggest a practical forum and there was a good supply of criticism, in addition to Montano's piece, which was respectful in its choice of words. The most damning criticism was a political cartoon in the leading daily Reforma (Feb 24) which depicted a large Chavez gorilla, with a small Castro perched on his back playing an accordion labeled "CanCubaZuela Group" with a small image of Calderon dancing to the music and waving marimbas. Osorio told us at a same day Central Bank event with leading Mexican businessmen that there were abundant references to the cartoon and its apt characterization of the Summit's result.
Comment
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10. (C) In the end Mexico was limited to agreement on a new forum but without any specific commitments on institutional details. The Cancun declaration is a bulging rhetorical exercise
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that reflects the lack of agreement with its general and non-specific language. The press play leaned towards the critical side and even those who recognized Calderon's well-mentioned effort focused more attention on the paltry results. Even on the issues that Mexico argued to us before the summit were reasons for bolstering the Rio Group -- success on Colombia-Venezuela-Ecuador problem - the Summit result was directly contrary to hopes for a new more operational mechanism in the region.
11. (C) We have not had yet received the official GOM post-Summit read-out from our SRE and Presidency sources - they have been busy finishing the Declaration and doing follow up work with the Latin American Missions. We will be shortly following up with their analysis and comments on the way ahead, and their plans for deepening trade and investment through a new arrangement with Brazil, announced at the end of the Summit. Whatever their read out, this is not playing here as a "diplomatic success," except in some very general sense of raising the need for more effective regional action. Unfortunately, the Cancun Latin American Unity Summit was not an example of a new and bold step into the future but rather a reminder of Mexico's at times conflicting message on how it sees the future of the region and Mexico's role as one of its leaders. PASCUAL


mercoledì 1 dicembre 2010

No, non sarà il Natale dell’Ebook

Da quando usa gli ebook Maria Giovanna ha molto più spazio in casa: niente più grossi volumi sugli scaffali, niente più peso in borsetta per portarsi appresso l’ultimo romanzo, niente più polvere da passare con pazienza tra i libri. Eppure non riesce a togliersi una strana sensazione, quella di sentirsi più povera, priva di un patrimonio che le dava sicurezza. Nessuno sa che in una tavoletta di plastica grande come un foglio e spessa un paio di centimetri custodisce poco meno di mille libri e tutti si domandano che fine abbia fatto la sua ricca biblioteca. Scene non troppo future: da più parti in questi giorni, infatti, si sente proclamare in pompa magna la fine del libro di carta e l’arrivo degli ebook, i libri in formato elettronico. 
Le parole non sono più stampate su fogli di carta rilegati, ma vivono in una dimensione digitale, dalla quale vengono tratte solo nel momento in cui il lettore vuole che appaiano sullo schermo di un computer, di un tablet pc (dei computer piatti a tutto schermo) o di unebook reader (le tavolette che utilizzano la carta elettronica per far apparire delle pagine). I proclami, però, spesso lasciano il tempo che trovano e le cose sono ben più complesse di quanto sembrino. Ad aprire uno squarcio sul magmatico e complicato mondo del libro contemporaneo è Edoardo Barbieri, ordinario di Storia del libro e dell’editoria presso l’Università Cattolica, direttore del Centro di ricerca europeo libro editoria biblioteca, Creleb, e direttore del Master universitario Professione editoria della stessa Università.
«È vero che oggi già tutto il processo di produzione di un libro avviene in digitale: autori, editori e tipografi lavorano tutti su computer – nota Barbieri – e l’ultimo muro resta la carta sulla quale vengono stampati i libri. Ma superare quest’ultimo muro non è affatto semplice». Eppure i dati parrebbero confermare questa tendenza: negli Stati Uniti tra il 2009 e il 2010 la crescita del mercato dei libri elettronici è stata del 176,6% e tra gennaio e agosto 2010 addirittura del 193%. Questi numeri, già riportati su Avvenire da Giuliano Vigini, saggista e docente di Sociologia dell’editoria contemporanea alla Cattolica, potrebbero far credere in un «miracolo» economico e parlano di un giro di 917 milioni di dollari. Tuttavia questo fatturato rappresenta solo il 3,8% del mercato editoriale statunitense. Tra l’altro, nota Barbieri, «quello anglofono è un mercato particolare. Al contrario in quello spagnolo, che pure conta un potenziale bacino d’utenza molto grande, non vi sono gli stessi segnali di crescita». 

Il cambiamento, però, è in atto e, anche se non ha ancora una forma definita, non si può più fermare. Ne è convinto Gino Roncaglia, docente di Informatica applicata alle discipline umanistiche e di Applicazioni della multimedialità alla trasmissione delle conoscenze all’Università degli studi della Tuscia, studioso della storia della logica e autore del libro La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro. 
«Il tema degli ebook non è nuovo – dice – perché uscì già nel 1999 e nel 2001 già si parlava di fallimento. Nel 2007 fu rilanciato dal colosso americano Amazon, che vende libri online e che ha ideato un proprio lettore, il Kindle, per i libri elettronici. Io non penso che a gennaio 2011 potremmo parlare di un exploit dei libri elettronici a Natale, probabilmente conteremo poche centinaia di copie vendute in Italia. Ma questo non è indice di fallimento: è una rivoluzione che richiede tempo». Secondo Roncaglia quello in atto è il quarto salto epocale, dopo il passaggio da oralità a scrittura, da rotolo a libro "paginato", da manoscritto a libro a stampa. 
Un salto, quello attuale, sostenuto dall’evoluzione dei dispositivi elettronici portatili di lettura, le cui funzionalità «hanno reso possibile il distacco dei libri elettronici da uno scomodo schermo di computer e dalla scrivania – nota Roncaglia –. La strada da fare, però, è ancora molta e resa complicata da innumerevoli difficoltà tecniche». Ma esiste una strada italiana nel campo degli ebook? «In Italia – fa sapere Vigini – la quota di mercato degli ebook raggiungerà quest’anno lo 0,1% dell’editoria con una disponibilità di non più di sei o settemila titoli in formato elettronico per la fine del 2010. Contando una crescita del 120% dei libri elettronici e del 2% di quelli cartacei nel 2014 arriveremo alla quota del 4,6% per gli ebook nel mercato editoriale». «Nel nostro Paese – nota Roncaglia – la difficoltà è data anche dal fatto che in un mercato piccolissimo ci sono già troppe piattaforme di distribuzione concorrenti tra loro. 
La frammentazione e la resistenza da parte di molti editori non faciliterà di certo la crescita». Eppure aggiunge lo studioso «abbiamo bisogno dei libri elettronici, perché mentre tutte le altre forme comunicative, dalla musica ai film, dalle foto alla televisione, sono passate al digitale, da questo ambito rischia di rimanere fuori quella forma argomentativa complessa che è tipica dei libri e che è necessaria allo strutturarsi del nostro modo di pensare». La questione, insomma, non si risolve con il semplice lancio sul mercato di nuovi dispositivi elettronici per la lettura, ma implica processi economici, culturali e anche cognitivi molto più complessi. Come sottolinea Vigini: «Il libro di carta offre un’esperienza diversa anche a livello emotivo, portando a una diversa conservazione della memoria della lettura. Per questo è più facile che gli ebook sostituiscano i libri di carta laddove la lettura viene fatta per consultazione o studio, come può essere nel caso delle enciclopedie o dei giornali. 
Oggi l’ebook può avere solo una funzione complementare al libro di carta». La direzione del cambiamento, insomma, sembra essere "multidimensionale": da un lato, come sottolineano Roncaglia e Vigini, l’evoluzione dei dispositivi che dovranno gareggiare a lungo con il libro di carta; dall’altro l’evoluzione delle forme di produzione dei testi e di lettura, che, come ricorda Barbieri, dovranno fare sempre più i conti con la multimedialità. 
Ma alla fine chi deciderà? Semplice: i lettori. È l’unico punto su cui sembrano davvero concordi gli esperti. Per Vigini editori e librai dovranno orientarsi verso una logica di «servizio» in grado di intercettare le esigenze dei lettori, offrendo ad esempio spazi tematici editoriali specializzati, magari in abbonamento. Per Barbieri saranno sempre i lettori, prima a «imparare» a usare le nuove tecnologie e poi ad aspettarsi libri sempre più evoluti. 
Infine Roncaglia ricorda che «negli Stati Uniti sono i lettori forti a trainare il mercato dei libri elettronici, mentre qui in Italia questo tipo di lettori, che hanno un peso non indifferente nell’industria editoriale, preferiscono ancora la carta». Insomma ci vorrà ancora tempo prima che Maria Giovanna possa trasformare la sua biblioteca in un archivio digitale. E avrà tutto il tempo, quindi, di abituarsi al nuovo stato di cose, senza provare alcuna nostalgia.

Il cinema e gli italiani piangono per Monicelli

Lo choc è di quelli che prendono alla pancia, e la stritolano. «Monicelli si è ucciso»: queste quattro parole si sono rincorse confusamente, sui cellulari, tra colleghi, sul web, nel mondo delle istituzioni. Un lutto che barda un’intera nazione, la unisce. Il cinema che si fa Paese. Come nei suoi film. A differenza di quelle storie, però, qui nessuno accenna un sorriso: anzi, i volti sbiancano a sapere com’è morto il grande regista. 
«Si è buttato dal quinto piano» ci si ripete sgomenti. A 95 anni. Sconvolto il collega fraterno Luigi Magni, compagno di set e di serate romane: «Non so cosa dire di fronte alla scelta estrema di Mario. La morte è sempre una brutta storia e decidere di andarsene così è comunque terribile». Abituato a sorprendere, sempre pronto al contropiede dialettico, Monicelli se n’è andato senza lasciare una riga, senza razionalizzare quello che ha fatto, insano gesto estremo compiuto all’ospedale San Giovanni di Roma, dov’era ricoverato per un tumore, su cui la procura di Roma ha doverosamente aperto un fascicolo. 
E questo, forse – il silenzio –, potrebbe essere l’ultima battuta conclusiva su se stesso, destinata a zittire chi invece su quella scelta si è già lanciato per ingrossare il proprio olimpo ideologico, come i radicali che lo hanno già fatto diventare un testimonial, preconfezionato a orologeria, della loro battaglia per l’eutanasia. Ma il nipote Niccolò taglia corto e ammonisce: «Ricordatelo con i suoi film». 
I suoi film, appunto, con cui Monicelli ha annotato ottant’anni di storia e contro-storia italiana. Di quello parlano i suoi amici registi. Pupi Avati racconta di avergli chiesto l’ultima volta: «"Mario ma quanti film hai fatto?". E alla sua risposta, ben 62 film, avevo sentenziato: non ti batterò mai"». Oltre sessanta film, e più di ottanta sceneggiature, instancabile guascone fuori e dentro il set. Monicelli era ironia, provocazione, spirito caustico: profondamente antifascista, si metteva automaticamente dalla parte di chi protestava, in strada con attori e registi come con gli studenti: «Ribellatevi ai tagli» diceva. E ogni tanto tirava fuori pure il pallino della rivoluzione: «Fate delle cose che vi impegnino, bisogna spingere con la forza e non tacere, sovvertire». Erano parole che venivano da lontano, da una cultura in cui affondavano le sue radici di albero secolare, ma che sapeva anche moderare di ottimismo: «Nella protesta dei giovani non c’è cupezza, solo certezza di vincere». Era moralista senza paura di esserlo, temperato da una certa cinica lucidità con cui osservava l’Italia di oggi: «È un continuo di feste in tv, balli, nudità, sesso. Sembrano gli ultimi giorni di Babilonia, come un vecchio film. Poi Babilonia crollava». 
«Era depresso e si sentiva solo» raccontano gli amici, come Carlo Verdone e Mimmo Calopresti, rivelando un uomo che in fondo assomigliava alle sue tragicomiche: La grande guerra, Un borghese piccolo piccolo, Amici miei, il film delle zingarate, della goliardia che lascia sul fondo sempre un umido di amarezza. Non ci sarà nessun funerale per Monicelli. «Era la sua volontà», ripete la moglie Chiara Rapaccini: la salma sarà portata al quartiere Monti, il rione in cui viveva e che amava, e poi alla Casa del cinema (dalle 11 alle 17), dove oggi riceverà l’ultimo saluto. Quindi il corpo verrà cremato in una cerimonia privata.
«Non solo la commedia, ma il cinema italiano tout court deve molto a Monicelli» scriveva ieri l’Osservatore Romano. «Grazie a lui – dice il quotidiano vaticano –, e a pochi altri, la commedia è diventata non solo meno leggera, più amara, cattiva, a volte cinica, ma anche adulta», al punto «da interpretare quel Paese sfaccettato e pieno di contraddizioni che va dal dopoguerra all’epoca del boom e oltre».
«Si chiude un’epoca» dice Vincenzo Cerami. «Ora Monicelli e gli altri – gli fa eco Maurizio Costanzo – potranno rifare iSoliti ignoti. Mi raccomando, divertitevi». Gassman, Mastroianni, Sordi, Tognazzi, Manfredi, Dino Risi. Mancava solo lui. La commedia dell’Arte è finita.

Il business dei viaggi musicali

Ogni anno tiene incollate alla tv oltre un miliardo di persone. È il Concerto di Capodanno di Vienna. Quello che, in diretta dalla Sala d’oro del Musikverein, porta in tutto il mondo i valzer di Strauss la mattina del 1° gennaio. Ma vederlo dal vivo è una roulette. «L’unica possibilità per avere un biglietto – come si legge sul sito dell’orchestra dei Wiener Philharmoniker – è partecipare ad un sorteggio». Ma in realtà c’è una scorciatoia. Riservata a chi è disposto a spendere un po’ di soldi. Ma andiamo con ordine e atteniamoci alle istruzioni. I biglietti per assistere dal vivo al concerto sono estratti a sorte tra chi si iscrive sul sito dei Wiener dal 2 al 23 gennaio di ogni anno: prezzi, dai 30 euro per un posto in piedi ai 940 euro per una poltrona in prima fila. 

Questo per la mattina di Capodanno quando ci sono le telecamere, ma ci si può mettere in lista anche per i concerti del 30 dicembre (biglietti da 130 a 380 euro) e del 31 (da 25 a 720 euro): stesso programma, stesso direttore, quest’anno Franz Welser-Möst. Sorteggio a fine gennaio, entro il mese di marzo comunicazione scritta ai vincitori della singolare lotteria.

Eppure anche oggi, 28 novembre, fuori tempo massimo, si possono acquistare biglietti. E regolarmente. Il "trucco" è affidarsi ad agenzie turistiche che offrono pacchetti viaggio per un Capodanno a Vienna con incluso il prezioso del biglietto. Prima pagina del catalogo de Il sipario Musicale, «il primo tour operator italiano specializzato in viaggi musicali» come si legge nel volume ricco di proposte. 

Ecco l’offerta che comprende albergo per tre notti, tre cene, visite a musei e monumenti e biglietto per il Concerto di Capodanno a 4.375 euro, ma non il viaggio, che è carico del cliente. Il prezzo scende a 3.005 euro se si sceglie di ascoltare i valzer la sera del 31 dicembre. Insomma, una differenza di 1370 euro (stiamo parlando della tariffa massima). Mentre per chi ha scelto la via del sorteggio lo scarto tra il biglietto del 31 dicembre e quello del 1° gennaio è di 220 euro.

«Il grosso divario è legato ai costi di acquisizione e al rischio di rimanere anche con qualche biglietto invenduto» precisa Andrea Cortelazzi, responsabile delle relazioni esterne del Sipario Musicale. E anche qui occorre capire. Prima di tutto come mai, se l’unica via, come dicono i Wiener, è quella del sorteggio ci sono sul mercato tali proposte? «In diciassette anni di attività nel campo dell’organizzazione dei viaggi musicali – spiega Cortelazzi – abbiamo intrecciato rapporti di fiducia con i teatri di tutto il mondo tanto che, come nel caso di Vienna, abbiamo la possibilità di opzionare un tot di biglietti da inserire nei nostri pacchetti».

In realtà all’estero esistono anche società che acquistano i biglietti e li rivendono in tutto il mondo. Guadagnandoci. Sono, diciamo così, "bagarini legalizzati", visto che queste agenzie hanno una forma giuridica e pagano le tasse. Facendo, però, inevitabilmente salire il costo dei biglietti. Con il rischio che la musica diventi un fatto elitario, riservata a chi economicamente se la può permettere.

Basta sfogliare i cataloghi degli operatori turistico-musicali italiani (una realtà che si fa strada timidamente: oltre al Sipario Musicale, ci sono Note in Viaggio a Roma, Merion a Genova, Esatour nelle Marche). 

Per una poltrona di platea per la<+corsivo> Valchiria<+tondo> di Wagner che il 7 dicembre inaugurerà la nuova stagione del Teatro alla Scala, il costo (comprese due notti e la cena di Sant’Ambrogio) è di 4mila euro (che scendono a 650 euro se ci si accontenta di un posto in loggione). Per passare il Capodanno a Venezia, con il concerto diretto da Daniel Harding alla Fenice, occorre mettere in conto (tre notti più il cenone) 1330 euro. Quattro notti per un Don Giovanni di Mozart all’Opera di Vienna vengono 720 euro, 710 euro costano invece tre sere a Londra per vedere al Covent GardenAdriana Lecouvreur con i divi Angela Gheorghiu e Jonas Kaufmann. Se amate Wagner, con 1515 euro potete passare due notti a Bayreuth per un’opera del festival estivo (poltrona in galleria, però). 

Molti i pacchetti per il Metropolitan: un esempio, a 2523 euro sette giorni a fine anno a New York con inclusi i biglietti per tre opere e un concerto del pianista cinese Lang Lang. Biglietti che, assicurano gli operatori, vengono venduti solo all’interno dei pacchetti turistici. «Se uno mi chiama e mi offre anche 10mila euro per un posto al Concerto di Capodanno di Vienna – conclude Cortelazzi – dico: no, grazie». Meglio tentare la fortuna con il sorteggio. O accendere la tv.

«Stadi al capolinea» Il pallone ora piange

Siamo all’ultimo stadio. E non solo in senso metaforico. La prima neve caduta sul campionato ha fatto rumore e con essa le polemiche sugli impianti di Serie A. «Così il sistema non funziona», ha sbottato Maurizio Beretta, presidente della Lega, dopo il rinvio di Bologna-Chievo. Campo e spalti del Dall’Ara domenica sono stati ricoperti di uno spesso manto bianco, ma il peso piùà difficile da sostenere è quello degli anni di vecchiaia dell’impianto. 
E dire che il manto erboso dello stadio del Bologna ha generalmente una buona tenuta, e per l’occasione era coperto dai teloni. Ma il problema non è questo: più che il campo impraticabile a preoccupare le autorità è stata la sicurezza degli spettatori sugli spalti ricoperti di neve. «Il sistema degli stadi non funziona, bisogna andare verso impianti di proprietà delle società o profondamente ristrutturati. Abbiamo gli stadi più obsoleti d’Europa - aggiunge Beretta -. Pochi campi al nord sono riscaldati. E la parte dell’accoglienza, della sicurezza non è all’altezza dei concorrenti europei e della qualità del calcio italiano».  
La soluzione di cui si parla sempre è la legge che dovrebbe permettere di costruire nuovi stadi, che sta seguendo il suo iter in Parlamento. «Ci conto, l’appuntamento è in queste ore, siamo vicini a una soluzione - ha detto Beretta -. Il Senato approvò all’unanimità, mi auguro che alla Camera faccia lo stesso percorso».
Domenica sono saltate per il maltempo anche sei partite in Lega Pro e nove tra i dilettanti (serie D). Il presidente della Lega calcio chiama in causa il governo. «Questo sistema non può più funzionare in questo modo - insiste Beretta -. Si deve pensare a stadi di proprietà delle varie società per poter garantire una situazione più qualitativa rispetto a quello che vediamo oggi. È necessario dunque dare una svolta, che speriamo possa arrivare al più presto anche grazie al lavoro del governo».
 L’idea di Beretta e dei club è molto chiara. «In altri paesi gli stadi sono stati finanziati con un ammontare molto elevato di denaro pubblico. Noi pensiamo, molto responsabilmente, che nella situazione attuale del Paese e della finanza pubblica sarebbe sbagliatissimo chiedere anche solo un euro alle casse pubbliche, quindi vogliamo fare gli stadi senza togliere un euro al cittadino. Naturalmente nulla si costruisce dal nulla, le risorse ci vogliono, l’idea è di avere la possibilità di costruire qualcosa di collegato allo stadio, ma parametrato all’investimento. 
Le dimensioni sono decise dal Comune e dagli altri soggetti politici che parteciperebbero all’accordo di programma. Gli stadi oggi non solo non generano profitti, ma accumulano debiti», continua Beretta che a chi teme speculazioni risponde: «Chi non vuole gli stadi, chi non è amico del calcio ha gettato una luce falsa su quello che vogliamo: non ci sono speculazioni».
Ma Bologna in questi giorni è all’indice anche per la sua preoccupante situazione economica. «La Lega calcio non ha responsabilità per i problemi societari del Bologna», ha precisato Beretta in un intervento a “Radio Anch’io Sport” su Radio 1. «Non solo abbiamo vigilato - ha detto Beretta -, ma abbiamo messo in atto tutto quello che serviva. Il rapporto del Bologna con la Lega e con le altre società è garantito in maniera granitica, ci sono tutte le fidejussioni necessarie per le operazioni su cui ci spetta di vigilare. I passaggi proprietari invece sono responsabilità delle società: non siamo la Consob dei club».
Infine la questione sciopero. La clamorosa protesta da parte dei calciatori per il rinnovo del contratto sembra davvero vicina: «Stiamo cercando di fare un accordo collettivo nell’interesse del calcio e non di una sola parte - spiega Beretta - Serve dare stabilità al calcio per i prossimi anni. Prendiamo atto delle norme Uefa che impongono ai club il pareggio di bilancio, quindi qualche cosa in modo concordata va fatta, bisogna cambiare. Il tempo del gioco delle parti è finito, si deve lavorare per costruire un accordo utile al calcio. Un accordo nell’interesse di tutti».