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venerdì 11 marzo 2011

Un pallone per la pace

Una squadra di calcio condannata a giocare sempre in trasferta, lontano dalla sua terra, non è una squadra come le altre, è una formazione infelice e perdente in partenza. Fino a ieri è stato questo il triste destino della nazionale della Palestina che però da oggi, ad al-Ram – periferia Nord-Est di Gerusalemme – oltre a disputare la sua prima gara internazionale in “casa”, aprirà una nuova era, quella in cui anche un pallone può diventare uno strumento di dialogo nella sfida più importante: la pace con Israele. 


Nell’ultimo secolo, nella storia di ogni singolo Paese, troverete sempre una sfera di cuoio che rotolando leggera vicino allo scarpino, ha fatto sentire all’uomo il mondo ai suoi piedi. È forse anche per questo che a volte un pallone lo ha reso ancora più “lupo” rispetto al suo simile? Nella ex Jugoslavia, i primi venti di guerra fratricida soffiarono il 13 maggio del 1990, in occasione della sfida tra i croati della Dinamo Zagabria e i serbi della Stella Rossa di Belgrado. La “Tigre Arkan”, Zeljco Raznjatovic (criminale di guerra ucciso nel 2000), prima di diventare il condottiero sanguinario della Serbia, era stato il capoultrà dei “Delije”, i guardiani dello stadio Maracanà di Belgrado. Un pallone è riuscito a diventare il giocattolo potente, il panem et circenses dei dittatori di ieri, da Mussolini a Hitler, passando per Salazar e Stalin, fino agli ultimi rigurgiti totalitari dell’albanese Hoxha e il bielorusso Lukašenko. Un pallone può trasformare un campo di calcio in un campo minato e uno stadio perfino in un “lager”. Ruud Gullit e Roberto Carlos sono diventati i due simboli, rispettivamente del calcio ceceno e di quello del Daghestan, Paesi che si combattono con pallottole e pallonate. Gullit è l’allenatore del Terek Grozny che appartiene al “piccolo dittatore” della Cecenia, Ramzan Kadyrov. Mentre l’Anzhi Makhachkala, in cui gioca il brasiliano Carlos, è nelle mani del famelico magnate Suleyman Kerimov, senatore del minuscolo Daghestan (2,5 milioni di abitanti), diventato il rifugio dei ribelli ceceni, ostili al regime di Kadyrov.



Una palla prigioniera, può dunque dividere i popoli. Ma il calcio è per lo più, libertà, unione, fratellanza e ventidue uomini in campo possono trasmetterlo a un’intera comunità. Un primo incontro che non fosse più uno scontro a senso unico, turchi e armeni l’organizzarono sul campo di calcio di Erevan (gara di qualificazione ai Mondiali del 2010). Alla 24ª edizione della Coppa d’Africa gli “amavubi” del Rwanda incontrarono i nemici storici, i “simba” del Congo e furono 90 minuti di grande fair-play. Certo 90 minuti non cancellano i genocidi degli armeni e dei rwandesi, ma un pallone con le sue traiettorie imprevedibili può disegnare la speranza.



Come quella scaturita dal gol di Younis Mahmoud Khalef all’Arabia Saudita, un lampo nel buio per l’Iraq che vinse la sua prima storica Coppa d’Asia. Quel 29 luglio del 2007, Baghdad per un giorno si è sentita la capitale pacifica dello sport mondiale. La stessa sensazione che ha provato la Palestina, il 27 ottobre del 2008, quando per la prima volta la sua nazionale, perennemente in esilio (in Egitto o in Qatar), organizzò il suo primo match casalingo: l’amichevole con la Giordania. Lì, nel piccolo stadio di al-Ram, a un passo da quel muro della vergogna che divide gli israeliani dai palestinesi, un pallone oggi torna a rimbalzare sull’erba, sintetica, e si spera anche sulle coscienze. 



È la prima partita internazionale: per la fredda cronaca, la nazionale olimpica della Palestina contro la Thailandia si gioca la qualificazione ai Giochi di Londra 2012. Ma comunque vada, è già un successo. Si torna in quello stadio – intitolato ad al-Husseini, leader dell’Olp e fondatore dell’Unione generale degli studenti palestinesi – fortemente voluto dalla Fifa e dalla comunità palestinese sparsa nel mondo e ricostruito dopo i bombardamenti israeliani. Oggi dagli spalti, dai tifosi della Palestina (non più di 12mila, altrettanti quelli fuori dallo stadio e sui balconi dei palazzi adiacenti) si alzeranno solo cori di gioia che rimbomberanno nella vicina Gerusalemme e idealmente si sentiranno fino a Gaza. Laggiù giocavano Alkurd e Moshate, due nazionali rimasti uccisi nel blitz israeliano denominato “Operazione piombo fuso”. A Gaza, dove è nata la stella Kash Kash, la partita non potranno vederla neppure dalla tv i cinque giocatori della selezione allenata dal ct tunisino al-Talele, perché non hanno ricevuto il visto per al-Ram. Il pallone palestinese con il suo messaggio, «a gol for peace», vorrebbe tanto entrare nelle porte e nei cuori di tutti gli israeliani, ma intanto resta confinato nella sola Cisgiordania. Ma da Israele qualcosa si muove. Sulla scia del “Centro Peres per la Pace” di Tel Aviv, cellule pacifiste israeliane – sono molte di più di quello che si crede – in giro per l’Europa hanno organizzato squadre “miste” in cui dopo un gol hanno abbracciato il compagno palestinese.



Ora questa partita, in un campo vicino a quello di “battaglia”, vuol dire normalità e un pallone può fare molto, anche lì dove trovare un’intesa sembra un’impresa impossibile. Un pallone, da rugby e poi da calcio, è riuscito a riunire i bianchi e i neri del Sudafrica. Un piccolo-grande “miracolo” che si è compiuto sotto gli occhi di Nelson Mandela, convinto da sempre che «lo sport ha il potere di cambiare il mondo». E allora un pallone, già da oggi, può cambiare il futuro della Palestina.