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venerdì 11 marzo 2011

Un pallone per la pace

Una squadra di calcio condannata a giocare sempre in trasferta, lontano dalla sua terra, non è una squadra come le altre, è una formazione infelice e perdente in partenza. Fino a ieri è stato questo il triste destino della nazionale della Palestina che però da oggi, ad al-Ram – periferia Nord-Est di Gerusalemme – oltre a disputare la sua prima gara internazionale in “casa”, aprirà una nuova era, quella in cui anche un pallone può diventare uno strumento di dialogo nella sfida più importante: la pace con Israele. 


Nell’ultimo secolo, nella storia di ogni singolo Paese, troverete sempre una sfera di cuoio che rotolando leggera vicino allo scarpino, ha fatto sentire all’uomo il mondo ai suoi piedi. È forse anche per questo che a volte un pallone lo ha reso ancora più “lupo” rispetto al suo simile? Nella ex Jugoslavia, i primi venti di guerra fratricida soffiarono il 13 maggio del 1990, in occasione della sfida tra i croati della Dinamo Zagabria e i serbi della Stella Rossa di Belgrado. La “Tigre Arkan”, Zeljco Raznjatovic (criminale di guerra ucciso nel 2000), prima di diventare il condottiero sanguinario della Serbia, era stato il capoultrà dei “Delije”, i guardiani dello stadio Maracanà di Belgrado. Un pallone è riuscito a diventare il giocattolo potente, il panem et circenses dei dittatori di ieri, da Mussolini a Hitler, passando per Salazar e Stalin, fino agli ultimi rigurgiti totalitari dell’albanese Hoxha e il bielorusso Lukašenko. Un pallone può trasformare un campo di calcio in un campo minato e uno stadio perfino in un “lager”. Ruud Gullit e Roberto Carlos sono diventati i due simboli, rispettivamente del calcio ceceno e di quello del Daghestan, Paesi che si combattono con pallottole e pallonate. Gullit è l’allenatore del Terek Grozny che appartiene al “piccolo dittatore” della Cecenia, Ramzan Kadyrov. Mentre l’Anzhi Makhachkala, in cui gioca il brasiliano Carlos, è nelle mani del famelico magnate Suleyman Kerimov, senatore del minuscolo Daghestan (2,5 milioni di abitanti), diventato il rifugio dei ribelli ceceni, ostili al regime di Kadyrov.



Una palla prigioniera, può dunque dividere i popoli. Ma il calcio è per lo più, libertà, unione, fratellanza e ventidue uomini in campo possono trasmetterlo a un’intera comunità. Un primo incontro che non fosse più uno scontro a senso unico, turchi e armeni l’organizzarono sul campo di calcio di Erevan (gara di qualificazione ai Mondiali del 2010). Alla 24ª edizione della Coppa d’Africa gli “amavubi” del Rwanda incontrarono i nemici storici, i “simba” del Congo e furono 90 minuti di grande fair-play. Certo 90 minuti non cancellano i genocidi degli armeni e dei rwandesi, ma un pallone con le sue traiettorie imprevedibili può disegnare la speranza.



Come quella scaturita dal gol di Younis Mahmoud Khalef all’Arabia Saudita, un lampo nel buio per l’Iraq che vinse la sua prima storica Coppa d’Asia. Quel 29 luglio del 2007, Baghdad per un giorno si è sentita la capitale pacifica dello sport mondiale. La stessa sensazione che ha provato la Palestina, il 27 ottobre del 2008, quando per la prima volta la sua nazionale, perennemente in esilio (in Egitto o in Qatar), organizzò il suo primo match casalingo: l’amichevole con la Giordania. Lì, nel piccolo stadio di al-Ram, a un passo da quel muro della vergogna che divide gli israeliani dai palestinesi, un pallone oggi torna a rimbalzare sull’erba, sintetica, e si spera anche sulle coscienze. 



È la prima partita internazionale: per la fredda cronaca, la nazionale olimpica della Palestina contro la Thailandia si gioca la qualificazione ai Giochi di Londra 2012. Ma comunque vada, è già un successo. Si torna in quello stadio – intitolato ad al-Husseini, leader dell’Olp e fondatore dell’Unione generale degli studenti palestinesi – fortemente voluto dalla Fifa e dalla comunità palestinese sparsa nel mondo e ricostruito dopo i bombardamenti israeliani. Oggi dagli spalti, dai tifosi della Palestina (non più di 12mila, altrettanti quelli fuori dallo stadio e sui balconi dei palazzi adiacenti) si alzeranno solo cori di gioia che rimbomberanno nella vicina Gerusalemme e idealmente si sentiranno fino a Gaza. Laggiù giocavano Alkurd e Moshate, due nazionali rimasti uccisi nel blitz israeliano denominato “Operazione piombo fuso”. A Gaza, dove è nata la stella Kash Kash, la partita non potranno vederla neppure dalla tv i cinque giocatori della selezione allenata dal ct tunisino al-Talele, perché non hanno ricevuto il visto per al-Ram. Il pallone palestinese con il suo messaggio, «a gol for peace», vorrebbe tanto entrare nelle porte e nei cuori di tutti gli israeliani, ma intanto resta confinato nella sola Cisgiordania. Ma da Israele qualcosa si muove. Sulla scia del “Centro Peres per la Pace” di Tel Aviv, cellule pacifiste israeliane – sono molte di più di quello che si crede – in giro per l’Europa hanno organizzato squadre “miste” in cui dopo un gol hanno abbracciato il compagno palestinese.



Ora questa partita, in un campo vicino a quello di “battaglia”, vuol dire normalità e un pallone può fare molto, anche lì dove trovare un’intesa sembra un’impresa impossibile. Un pallone, da rugby e poi da calcio, è riuscito a riunire i bianchi e i neri del Sudafrica. Un piccolo-grande “miracolo” che si è compiuto sotto gli occhi di Nelson Mandela, convinto da sempre che «lo sport ha il potere di cambiare il mondo». E allora un pallone, già da oggi, può cambiare il futuro della Palestina.

giovedì 3 marzo 2011

Delio Rossi: «Forse è meglio allenare i bambini»

È uscito di scena con le lacrime trattenute a stento, l’altro giorno nella conferenza stampa di addio. I tifosi rosanero Delio Rossi lo hanno acclamato però, specie dopo la frase: «Gli allenatori e i presidenti passano, il Palermo resta».
È finita così l’avventura siciliana di un tecnico che meritava un trattamento migliore. Da Zamparini come da Lotito alla Lazio, dopo la Coppa Italia vinta ai rigori sulla Sampdoria, senza dimenticare la qualificazione alla Champions League. Invece tre sconfitte in fila hanno fatto dimenticare lo spettacolo offerto con Pastore e Ilicic, la Roma rullata, le tre vittorie di fila sulla Juve, l’Inter sotto di due gol a San Siro.

Delio Rossi, ora lei è a guardare, mentre Allegri pregusta lo scudetto con il Milan dopo solo una breve esperienza al Cagliari, in Serie A. E Leonardo appena alla seconda stagione da tecnico lo contrasta con l’Inter...
«Loro sono arrivati subito alle grandi, io no. La gavetta però serve: sui campi sterrati, nelle categorie inferiori, si cresce».

Da seguace di Zeman, come lui è stato tradito dalla voglia di entusiasmare?
«Non sono allievo di nessuno, sarebbe sciocco e riduttivo considerarmi un clone del boemo. Ero capitano della sua squadra, il Foggia, nell’86-’87, e poi tecnico della Primavera, quando Zeman si impose all’attenzione nazionale. Non mi sono mai ispirato a lui, ma è fra i tecnici che stimo».

Tante squadre sono molto fisiche, lo spettacolo però si fa con la tecnica.
«Se hai giocatori veloci e di classe, che sanno fare l’uno contro l’uno, la tattica viene dopo: decidono i duelli, aggiudicandosene sette su undici si vincono le partite».

Come si spiegano le difficoltà in trasferta del Palermo, al di là degli 11 gol subiti nelle ultime due gare in casa?
«Abbiamo venduto Simplicio, Cavani e Kjaer, ovvero i pilastri di ciascun reparto, ringiovanito la rosa. La squadra ha futuro, anche se non raccoglie subito. Crescerà».

Furoreggiano gli attaccanti di stazza piccola: Di Natale, Sanchez, Di Vaio. Lo stesso Miccoli portò il Palermo al quinto posto, un anno fa...
«Il calcio è lo sport più democratico: nel basket, a pallavolo e a tennis vince la prestanza, a pallone ci sono il brevilineo, l’agile, il roccioso; la differenza è nella qualità. Gli attaccanti grossi hanno fisicità ma offrono meno spettacolo».

Ecco, lei come fa a divertire quasi sempre con le sue squadre?
«Amo un calcio propositivo, organizzato. La squadra deve avere uno spartito, nel possesso e non, seguire un filo logico».

E quel chewing-gum divorato, come forse solo Ancelotti sa fare?
«È un surrogato delle sigarette, mi mancano tanto, in panchina. Anzi, mi mancava...».

Chi vincerà lo scudetto?
«Prima dell’inizio del campionato pensavo all’Inter, ora invece dico Milan».

Qual è il miglior giovane?
«Dico Pastore, per affetto e riconoscenza nei confronti dei giocatori che ho allenato sino a domenica sera, anche se magari non ne sono convinto del tutto».

Il presidente Zamparini da tempo la criticava per la fase difensiva.
«Quando qualificai la Lazio alla Champions League non subivo tanti gol. Dipende sempre dalle caratteristiche dei giocatori, con Cassani e Balzaretti in fascia devi avere centrali molto rapidi che sappiano leggere le situazioni. Gli schemi belli non bastano, servono equilibrio e un buon saldo fra reti all’attivo e al passivo».

Come si giustifica quel febbraio con solo la vittoria a Lecce?
«Questo Palermo era la squadra più talentuosa e difficile che abbia guidato, con molti talenti a briglia sciolta. Io sono irrazionale di natura, ma razionale sul campo».

Come valuta i torti arbitrali che tante volte avevano innescato il presidente?
«Le piccole non interessano. La guerra in Iraq è considerata nel mondo per il petrolio, del Darfour non frega niente a nessuno. Accade la stessa cosa nel calcio italiano».

Zamparini minaccia spesso di lasciare, ma vale la pena che i proprietari continuino a indebitarsi per il calcio?
«Non conosco filantropi, una volta si investiva per amore di maglia, chiunque ha un ritorno».

Lei ha 51 anni, allena da 21, sino a quando continuerà?
«Non per molto. O mi accende un progetto o preferisco restare fermo. Vivo la professione 24 ore al giorno, in maniera totalizzante. Ora vorrei tornare a guidare i bambini, sono prestato al professionismo».

Spalletti, Ancelotti e Zaccheroni hanno vinto fuori dall’Italia, Mancini ci prova. Li imiterà?
«L’estero mi affascina, ma un posto di mare, dove c’è il caldo. Non amo il freddo. A parte sei mesi a Bergamo, ho lavorato solo in città di mare. Con l’acqua ho un buon rapporto, è lì, mi dà sicurezza. Chi va in Russia comunque non lo fa per esperienza di vita, ma perchè è ben pagato».

Del Neri è approdato alla Juve a 60 anni, Rossi arriverà mai a una squadra da scudetto?
«Mi ritengo fortunato per quanto ho avuto. Mi piace la professione, è pure ben retribuita. Ho tantissimo rispetto per chi lavora in Lega Pro, ho quasi sempre firmato anno per anno, a Palermo avevo un biennale a scadenza in giugno».

Il Napoli è vicino a qualificarsi per la prossima Champions League...
«La differenza tra Nord e Sud non sta nell’intelligenza delle persone, ma nelle strutture e nel potere economico. Il Napoli che vince fa bene a tutti».

martedì 22 febbraio 2011

Calcio: un mondo di musei nel pallone

«Ci sono alcuni paesi e villaggi del Brasile che non hanno una chiesa, ma non ne esiste neanche uno senza un campo di calcio», ha scritto uno dei massimi epigoni della “letteratura di cuoio” l’uruguayano Eduardo Galeano. E ci sono alcuni paesi che vicino alla chiesa laica del football, lo stadio, hanno pensato bene di metterci un museo. 

Un luogo ormai diffuso e globale, dal Nepal alla Norvegia, in cui sacralizzare la storia del proprio club, che ne testimoni gli splendori e possibilmente, ne cancelli, almeno il tempo della visita alla sala dei trofei, le immancabili miserie. Fiore all’occhiello di questo turismo alternativo, ma quasi ovunque inserito ormai nei pacchetti della agenzie di viaggio, è il museo del Barcellona. 

All’interno della suggestiva cornice del Camp Nou, lo stadio più capiente d’Europa, con i suoi 98.772 spettatori, per visitare il museo del Barça, inaugurato nel 1998, ogni anno si mette in fila quasi un milione e mezzo di persone. E, attenzione, non tutti appartengono alla categoria calciofili indefessi. Fascino allargato di una squadra che, come recita la scritta a caratteri cubitali impressa sulle pareti della tribuna, è «més que un club», cioè molto più di un semplice club. 

L’ingresso all’Fcbm, orario continuato dal lunedì al sabato, ha anche un costo – 8 euro e 50 centesimi per gli adulti e 6,80 euro per i ragazzi fino a 13 anni –, perciò basta moltiplicare il milione e mezzo di presenze per comprendere che l’aspetto turistico-culturale della squadra, da sempre orgoglio della Catalogna, diventa una voce di rilievo quanto ilmerchandising derivante dalla vendita nel mondo delle centinaia di migliaia di maglie di Messi e compagni. Numeri e introiti incredibili che distanziano nettamente il Barcellona dall’eterna rivale Real Madrid, il cui dignitosissimo museo al Santiago Bernabeu rientra tassativamente nel tour della capitale spagnola insieme al Prado e a un altro spazio museale, quello dei cugini dell’Atletico Madrid. 

La Spagna dunque, con Barcellona e Madrid – ma anche Saragozza e il nuovo museo del Mestalla di Valencia – fa da traino: però il nuovo turismo calcistico e la storicizzazione museale del gioco del pallone, sono nati, come il football in Inghilterra, dove dal lontano 1863 ha sede la prima federazione al mondo, la National Football Association. 

E dopo Barcellona il sorprendente viaggio alla ricerca del pallone perduto e ritrovato in gallerie calcistiche, che tengono botta alle più prestigiose sezioni museali e collezioni d’arte, non può che fare sosta al National Football Museum. «Un gioiello» – secondo il parere dell’algido presidente della Fifa, Sepp Blatter –, quello del Deepdale Stadium, sito nella piccola Preston del “birraio” di Andrea Camilleri. Un luogo assolutamente poetico, in cui si va alle radici della storia del calcio che calamita, specie tra gli inglesi, le attenzioni di quel pubblico che solitamente varca l’ingresso della Tate o della National Gallery.

A Preston, turista non affatto per caso, è stato anche l’ex primo ministro britannico Gordon Brown venuto per ammirare, come tanti, la mitica maglia bianca e il berretto di lana di Arnold Kirke Smith, uno dei pionieri del football che il 30 novembre 1872 disputarono la prima sfida della Nazionale inglese, nel leggendario confronto con la Scozia. Al National Football Museum è custodita anche la preziosa e unica Coppa Rimet (il titolo mondiale) vinta dall’Inghilterra nella finale di Wembley (1966) contro la Germania. 

A Londra, dove hanno sede quattordici club professionistici di cui cinque in Premier League (la nostra Serie A), dopo la momentanea chiusura del museo del West Ham, quello dell’Arsenal, all’Emirates Stadium, e del Chelsea “degli italiani” (vi hanno giocato Zola, Vialli e Di Matteo, ora li allena Carlo Ancelotti), a Stamford Bridge, sono i più visitati.

«Ma Londra non è più la capitale dei musei del calcio. L’asse prima si è spostato a Liverpool, che grazie ai Beatles ma anche al football – alla gloria dei Reds – nel 2008 è stata la capitale della cultura europea; e ora il polo principale è diventato Manchester», spiega l’esperto Maurizio Martucci, autore di Football Story. Musei e mostre del calcio nel mondo(Nerbini). Il centro di gravità permanente dei turisti calciofili si trova infatti a Manchester, e precisamente nella casa dello United. 

Nello stadio di Old Trafford, in quello che non a caso viene definito “the theatre of dreams”, il teatro dei sogni, ogni anno circa trecentomila visitatori – 8,5 sterline (10 euro) il biglietto d’ingresso – rimangono incantati appena arrivano davanti allo stadio. Davanti al piazzale antistante vengono accolti dalle statue degli “eroi” dei leggendari Red Devils: il padre-manager, sir Matt Busby e i suoi golden boy Best-Law-Charlton, che con un pizzico di goliardica blasfemia i supporter delManchester United chiamano «la santa trinità». Nei corridoi di Old Trafford la storia e la tradizione sono superiori albusiness, che però ha la sua importanza nel negozio al piano terra, dove la vendita dei gadget alza il Pil del club più titolato del Regno. Più magliette vendute che Coppe nel museo dei cugini del Manchester City dello sceicco Mansour che, da quando sono arrivati il mister Roberto Mancini e il black-italian Mario Balotelli, hanno incrementato il numero dei tifosi-turisti italiani. 

Nel nostro Belpaese, miniera planetaria dei tesori artistici, invece per numero e qualità dei musei del calcio siamo ancora dietro al Portogallo e solo la Francia ci salva dall’essere fanalino di coda. «Colpa prima di tutto della mancanza di una vera “cultura sportiva”: in Inghilterra e in Spagna esistono da tempo cattedre universitarie di Storia del calcio e nelle scuole di ogni ordine e grado i programmi didattici prevedono la visita guidata al museo del club – spiega Martucci –. Poi, siccome la Fifa vuole che questo venga allestito in stadi moderni e confortevoli, allora l’Italia vanta anche il triste primato degli impianti più vetusti – hanno in media sessantasette anni – d’Europa». 

Nello stadio architettonicamente più competitivo, quello di San Siro a Milano, il museo di  Inter e Milan con quarantatremila presenze la scorsa estate è stato il “monumento” più visitato (più di Palazzo Reale, Brera e il Cenacolo); ma il novanta per cento dei turisti-calcistici erano stranieri, in prevalenza inglesi e olandesi. Nonostante i club italiani siano ormai in gran parte secolari, da noi la tradizione museale legata al calcio è ancora ferma a tentativi di mostre celebrative e la difesa storica è affidata a un generoso volontariato. La risorsa principale che tiene in vita il museo del Grande Torino di Grugliasco sono i volontari, che aprono gratuitamente alle carovane dei tifosi soltanto il sabato e la domenica, purché ci sia la partita di campionato del Toro. Basta imbattersi in uno dei “pellegrinaggi” al museo granata per comprendere il significato del calcio “come una fede”. Una fede laica che risplende nel museo del Barcellona in cui, vicino alle maglie di Crujff e Ronaldo e le ultime Coppe dei Campioni dei ragazzi di Pep Guardiola, fa bella mostra la Mont Blanc con cui papa Wojtyla nel 1982 firmò il Libro d’onore del Club. 

Il turista-tifoso va a caccia per il mondo di reliquie e al Museo del calcio di Coverciano (Firenze), nel laboratorio della Nazionale italiana, si può perdere dinanzi a quarantottomila foto digitalizzate, ottocento spezzoni di filmati e trecento cimeli, oltre ai sessantaquattro palloni e ai trentatré scarpini donati dai leggendari azzurri vincitori di quattro Coppe del Mondo. Il turista-tifoso adora dunque le mirabilia: quelle giapponesi delle quattordici sale di Kashima; le americanate da Soccer Hall Fame di Vaughan (Canada) o dei newyorkesi Cosmos di Chinaglia e Pelè. Ma è anche fortemente attratto dal mito e dalla poesia, quella della Bombonera, la “casa” del Boca Juniors di Diego Armando Maradona, in una Buenos Aires in cui anche Borges, stregato dalla fascinazione popolare del pallone, scrisse: «Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio».

domenica 20 febbraio 2011

Berlusconi e il Milan, i 25 anni che hanno riscritto la storia

Primi giorni del 1986: il Milan, già reduce da due retrocessioni (la prima per il calcio-scommesse, la seconda sul campo) è sull’orlo del fallimento, sportivo e societario. Azioni sequestrate dalla Guardia di Finanza, il presidente Giuseppe “Giussy” Farina inseguito dall’accusa di falso in bilancio, Milanello assediata dai creditori. Ma poco prima che i libri contabili finiscano in tribunale, Silvio Berlusconi, dopo una lunga trattativa, il 20 febbraio annuncia l’acquisto del club di via Turati.

Ne cambierà la storia, facendone la squadra più titolata del mondo. E dire che, secondo quanto amava raccontare Peppino Prisco, nei primi anni ’80 aveva cercato di prendere l’Inter, non una ma due volte. Prima da Ivanoe Fraizzoli,poi da Ernesto Pellegrini. Berlusconi, d’altra parte, ha sempre negato simpatie interiste, ripetendo che per lui «il Milan è un’avventura romantica».

Come che sia, in 25 anni sotto la sua guida (e quella dei fidati dirigenti Silvano Ramaccioni, Ariedo Braida e Adriano Galliani) il club rossonero ha vinto tutto quello che c’era da vincere e anche di più. Un lungo elenco di trofei, a partire dal primo scudetto sotto la gestione del Cavaliere, nella stagione ’87-’88. In panchina non c’è più Nils Liedholm, ma una scoperta del Cavaliere, il romagnolo Arrigo Sacchi, tutto zona e pressing. Il verbo preferito di due campioni olandesi, Marco van Basten e Ruud Gullit (ai quali poi si aggiungerà Frank Rijkaard). Nel quarto di secolo targato Berlusconi il Milan ha aggiunto alla sua bacheca 7 scudetti, 5 Coppe Campioni/Champions League e tre volte si è laureato Campione del mondo. All’attivo anche 5 Supercoppe nazionali e altrettante europee, nonchè una Coppa Italia. Ed ha cambiato non poco l’immagine stessa del calcio. Dalle campagne acquisti faraoniche, alla creazione del Milan Lab, centro di ricerca scientifica per ottimizzare la gestione psicofisica degli atleti. Lungo anche l’elenco dei campioni passati per Milanello in questi 25 anni. 

Un’avventura parallela di successi e sapiente autopromozione, quella del Presidente-allenatore e del suo Milan, veicolo di consenso popolare e vetrina internazionale. Perchè nel frattempo l’imprenditore edile e l’inventore della tv commerciale è diventato anche uomo politico di successo. Nel maggio 1994 ha vinto le elezioni alla guida di Forza Italia - altra sua creatura - ed ha varcato il portone di Palazzo Chigi.

Sulla panchina del Milan si sono alternati l’aziendalista Fabio Capello, Alberto Zaccheroni, il ritrovato Carlo Ancelotti, fino a Leonardo e a Massimiliano Allegri. E anche quando gli allenatori sono meteore (vedi l’uruguaiano Tabarez ed il turco Terim), il Milan è sempre una parte importante dell’impero. E nemmeno il coinvolgimento in Calciopoli, al termine del campionato 2005-’06 (con penalizzazione di 30 punti) ha scalfito la passione del Cavaliere. Che qualche tempo fa ha promesso: «Sarò il presidente del Milan per altri 25 anni».

martedì 28 dicembre 2010

Il gol della vita, dai campi profughi ai campi di calcio

C'è un altro pallone, di cui non si parla mai. Partite che si disputano sui campi di periferia, dove in 90 minuti ci si gioca un pezzo di libertà conquistata a fatica, pagando sempre un prezzo altissimo, l’abbandono del proprio Paese. È il destino comune dei calciatori di un’intera squadra, la Liberi Nantes, composta da ragazzi di origine eritrea, somala, afgana, etiope, irachena, nigeriana, sudanese. Tutti marchiati dal sigillo della migrazione forzata per sfuggire alla follia della guerra e alle violenze. Una formazione di poeti del gol già nel nome, tratto da un verso del Libro I dell’Eneide di Virgilio. «Le navi degli esuli troiani in fuga dalla loro città in fiamme, fanno naufragio e solo pochi tra loro - "rari nantes" - immersi nel grande mare - "in gurgite vasto" - riescono a raggiungere la riva».


Almeno 350 Enea in fuga, «rifugiati politici», sbarcati sulle coste italiane, stipati in vascelli di fortuna o legati sotto ai camion, racconta il presidente della Liberi Nantes, Gianluca Di Girolami. È stata sua l’intuizione di mettere in piedi questa formazione, unica, un club più multietnico dell’Inter, gestito con innumerevoli sacrifici e con l’appoggio di un gruppo di amici, volontari, che hanno deciso di ridare un minimo di normalità alle esistenze di ragazzi in fuga. «Tre anni fa siamo andati a cercarli nei centri di accoglienza, alla Caritas, invitandoli a venire al campo di Pietralata. La loro casa era così diventata lo stadio "25 Aprile", il campo della mitica Alba Rossa, la formazione della Casa del Popolo». Un fischio d’inizio difficile, precario quanto il quotidiano di questi giovani braccati da un passato che ha lasciato ferite profonde. Ma un pallone ha avuto il merito di lenire un po’ il dolore, di unire lingue, culture e credo religioso, spesso in conflitto tra di loro, sotto un’unica maglia blu: il colore delle Nazione Unite. È il colore della maglia della Liberi Nantes. Formazione che gioca sempre in trasferta e la maggior parte dei suoi “tesserati” non può permettersi neppure il costo del biglietto dei mezzi per muoversi da una parte all’altra della Capitale. Così Gianluca e gli altri volontari, provvedono alle spese per gli spostamenti e al rientro serale nei centri di accoglienza.



Nonostante le innumerevoli difficoltà, la squadra dalla sua fondazione è cresciuta in fretta e amalgamando una Babele in campo, nel 2009, aveva subito impressionato nel campionato di Terza categoria. «Il 9 maggio 2009, ultima giornata di campionato, rimane una data indimenticabile . Sugli spalti si erano dati appuntamento almeno 600 rifugiati, amici e tifosi dei nostri ragazzi», racconta Gianluca con un filo di commozione, ma anche tanta amarezza, perché quello che definisce «un piccolo miracolo», adesso è seriamente a rischio. Ai successi in campo, fanno da contrappasso una serie di disagi che mettono a repentaglio il domani della Liberi Nantes. «Il problema più grave è il campo, quello che ci avevano assegnato è inagibile. E i fondi stanziati, 700mila euro, per le solite grane della burocrazia forse non li vedremo mai. Così, non avendo uno spazio per allenarci, molti dei ragazzi non ci seguono più. La rosa da 25 elementi si è ridotta a 7-8 e ogni domenica siamo costretti ad integrarla giocando alcuni di noi. E noi volontari non è che ce la passiamo meglio, quasi tutti i soci fondatori sono disoccupati». A 41 anni, nonostante una laurea in Lettere, anche Gianluca è rimasto senza lavoro, ma non ha nessuna intenzione di mollare. Continua a fare le convocazioni settimanali e ad appellarsi allo zoccolo duro dei fedelissimi. «Siamo diventati un’armata Brancaleone, ma vorremmo continuare a resistere per esistere e dare assistenza a questi ragazzi». Così Gianluca e gli altri, continuano ad affittare, a loro spese, i campi di calcio dei quartieri romani. «Ci vogliono 100 euro per ogni partita e quando non ci sono neppure quelli è notte fonda. Qualcuno ancora ci dà una mano e dobbiamo ringraziare Scilla Berardi, la presidentessa de “Le Fornaci” e l’ospitalità che la direttrice Mattia Morena ci ha concesso al centro sportivo “Fulvio Bernardini” di Pietralata. Però vorremmo cavarcela da soli». Due campagne di solidarietà sono già in corso. La prima l’hanno intitolata “Vecchio scarpino”. «In questi anni abbiamo acquistato almeno 100 paia di scarpe da calcio, ma dopo cinque mesi sono ridotte da buttare e così non bastano mai». L’altra campagna si richiama al principio originario della Liberi Nantes, “1 metro quadro di libertà”. «Un campo è composto di 6mila metri quadri circa, quindi con 100 euro di donazione per ogni metro si arriverebbe a 600mila euro e con quella cifra il nostro progetto avrebbe ancora avere un futuro». Grandi difficoltà ma anche la speranza che non si arrende «Ho incontrato Pepè – conclude il presidente – un nostro ragazzo della Costa d’Avorio, ed era felice come un bambino. Mi ha detto: “Sai Gianluca, ieri sera dopo la partita, Abdul, l’afgano, mi ha detto che se non sapevo dove andare a dormire poteva ospitarmi a casa sua. E ho dormito lì”. Un cristiano ospite in casa di un musulmano, solo per il fatto di essere compagni di squadra della Liberi Nantes… Finché accadranno ancora questi piccoli miracoli, noi ci saremo»

venerdì 10 dicembre 2010

Scommesse e camorra Giocatori sotto scacco


"Se prende i soldi e poi lo Stabia non vince, dobbiamo solo ucciderlo". Quanto vale la vita di un calciatore? Se c’è di mezzo la camorra, 25 mila euro e una gara da taroccare. Juve Stabia-Sorrento del 5 aprile 2009 deve finire con la vittoria dei padroni di casa. Lo ha deciso il clan D’Alessandro: il nuovo business della criminalità si chiama scommesse. Legali e clandestine. Il derby attira molte puntate: serve l'aiuto dei giocatori. L’uomo giusto è Cristian Biancone, 33 anni: una carriera spesa tra B e C, ma soprattutto amicizie pericolose. Come Francesco Avallone (uomo fidato del ras Paolo Carolei) che nell’intercettazione spiega quale sarebbe la fine del calciatore in caso di sgarro. Le cose, però, vanno come da piano: lo "Stabia" vince 1-0 grazie al gol propiziato da una papera del portiere Spadavecchia (ex Nazionale Under 20), che secondo i giudici mette 20 mila euro sul k.o. della sua squadra e diventa l'assicurazione "salvapelle" di Biancone. Benvenuti nella Gomorra del pallone. Fiumi di denaro riciclati, partite truccate, scommesse, usura, giocatori e dirigenti collusi o nel migliore dei casi "fruitori" in modo indiretto del Sistema. Quella che sembrerebbe una inchiesta circoscritta a Castellammare è in realtà una cartina di tornasole: la camorra si arricchisce grazie al calcio e alle sue appendici. Basta leggere le quasi 600 pagine dell’inchiesta "Golden gol", condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli. E ovviamente non fare l’errore di pensare che tutto si sia concluso con i 22 arresti (compreso Biancone, mentre Spadavecchia da indagato continua a giocare nell’Andria) dello scorso ottobre, dopo le richieste dei pm Pierpaolo Filippelli e Claudio Siragusa.
LA GENESI — "Mezzogiorno: c’era gente davanti al bar, ma non importava. Ho visto D’Antuono: parlava con una persona. Allora ho fermato il motorino rosso a circa 10 metri dall’obiettivo e, con calma, mi sono avvicinato. Non ha avuto tempo di capire nulla: gli ho sparato una raffica di colpi. Poi un piccolo imprevisto: l’uomo che gli stava vicino si è voltato, guardandomi in faccia. Non potevo far finta di nulla: l’ho freddato all’istante, con la pistola calibro 9". Un duplice omicidio. È il più classico dei delitti, l’inizio della attività investigativa che ha portato la Dda a incrociare la propria strada con quella dello sport più popolare del mondo. Un duplice omicidio avvenuto nel vialone che unisce Gragnano a Castellammare. É il 2008 quando il 58enne Carmine D’Antuono, detto o' Lione e affiliato al clan Imparato, rivale storico dei D'Alessandro, cade imbottito di piombo. Muore anche Federico Donnarumma, 42 anni, piccoli precedenti e una grande colpa: trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. I killer finiscono in manette dopo un anno. Raccontano l’esecuzione, preparata da tempo: per uccidere D'Antuono si era pensato a un’autobomba da far esplodere a Pescara, dove il pregiudicato aveva aperto una pizzeria. La morte, però, arriva in un "normale" agguato. Svelato il doppio omicidio, i pentiti diventano collaboratori di giustizia. I pm ora hanno in mano nomi e fatti per scoprire la rete di attività illegali del locale clan regnante. All’improvviso, le distanze dal mondo dello sport si riducono in modo sensibile.
IL SISTEMA — Tutto gira intorno alle scommesse. Un Sistema senza punti deboli. Come prima cosa il clan s’impadronisce delle agenzie attraverso prestanomi e inizia a riciclare denaro fresco. Le norme antimafia per ottenere le licenze? Funzionari compiacenti forniscono gli aiuti necessari: "Non ti preoccupare, ti dico come e quali documenti presentare". Il clan, però, non si accontenta e inizia a succhiare sangue alle società (nel caso di Castellammare la Intralot, ma tutte sono potenzialmente vulnerabili). Da una parte le giocate ufficiali, dall'altra quelle fantasma. La camorra le "banca", in altre parole le gestisce in modo privato: se vince incassa soldi puliti ed esentasse, se perde paga. Ma accade poche volte: le scommesse bancate sono solo quelle ad alto rischio per chi punta. "Juventus, Toro, Udinese e Chievo... Troppa roba, non uscirà mai. Senti a me, questa puntata ce la banchiamo. È un peccato lasciarla a Intralot". Un Sistema ingegnoso che prevede persino "bollette taroccate" da consegnare ai più sospettosi. Non solo, il clan dà anche l'opportunità di giocare d'azzardo, eludendo controlli e i limiti imposti (in Italia per una puntata secca si può al massimo vincere 10 mila euro, salgono a 50 mila se è un sistema) oppure raccoglie scommesse on-line in un sito non autorizzato: "Fallo andare sul www.milanobet.com. Dagli la password per entrare: sopra gli carichiamo 15 mila euro".
L’USURA — Il clan tiene una precisa contabilità per non fare confusione tra i soldi da riciclare e quelli guadagnati. Che reinveste prestando soldi a tassi usurai. "Sei in ritardo: devi pagare oppure scavati la fossa". A occuparsi di questo ramo è in particolare Francesco Cascone, detto 'o Sfregiato. Chiedergli 15 mila euro significa in breve tempo vedersi sfilare una proprietà a Paestum del valore di 250 mila. Il Sistema non lascia nulla al caso: è semplice e redditizio. In 12 mesi il ras Carolei, contribuente a reddito zero per il fisco, mette insieme nel punto di via Pioppaino 4,5 milioni di euro legali: il miglior modo per riciclare i capitali guadagnati con le piantagioni di canapa indiana coltivate sui monti Lattari, guglie alte fino a 1400 metri, attraversate da sentieri impervi e capre al pascolo, con vista sulla penisola sorrentina. Il Sistema prevede infine la ciliegina sulla torta: la frode sportiva.
L'arresto di Giuseppe Postiglione, ex presidente del Potenza. Ansa
L'arresto di Giuseppe Postiglione, ex presidente del Potenza. Ansa
IL RUOLO DEI GIOCATORI — "Non capisco come dopo tutti gli scandali sulle scommesse ci si possa ancora sorprendere: la maggior parte dei calciatori punta su partite aggiustate. C'è un passaparola: impossibile che un risultato concordato sfugga a questa rete". La nostra fonte è un ex giocatore. Il racconto fatto è verosimile. Tra le tanti intercettazioni di Biancone, una è emblematica: l’allora attaccante del Sorrento svela a Francesco Avallone (suo carnefice mancato) di aver saputo in anticipo persino il risultato di Bochum-Energie Cottubs, campionato tedesco: "Hanno fatto una cosa pazzesca in Germania. Sul live di Bochum-Energie si sono giocati in 20 minuti oltre 1 milione e duecento mila euro. Tutti sull'uno. Pensa: all’inizio ha segnato l’Energie. Ehh, un vero capolavoro. Il risultato finale l’ho saputo mezz’ora prima...". Adesso a Biancone le dritte non arrivano più: scarcerato nelle scorse settimane, resta indagato e rischia una condanna. I pm sono convinti che conosca molto bene il Sistema. Se fosse così, sarebbe importante la sua piena collaborazione: il cancro che sta lentamente divorando il calcio ne uscirebbe indebolito. Le metastasi, infatti, sono dappertutto: in Italia non si può puntare sulla gare della serie D perché le agenzie sanno che la criminalità ne disporrebbe con grande facilità. Ma le cose non migliorano tra i professionisti. Nella scorsa stagione il girone meridionale dell’ex C2 non è stato più quotato dopo le vincite pazzesche sul 3-3 di Scafatese-Monopoli (pagato 80 volte la posta). È da struzzi pensare che i giocatori non puntino su un risultato da loro concordato. La camorra non fa questo errore. Tutto è funzionale al Sistema. Lo stesso che entra in un’altra inchiesta: quella del pm Francesco Basentini che ha portato all’arresto, tra gli altri, di Giuseppe Postiglione, ex presidente del Potenza calcio. Il pm Fillippelli sta cercando un contatto tra le due indagini. Un contatto che porta al centro del tumore: il calcio non è solo vittima della criminalità. Sempre più spesso ne è complice. E chi sgarra finisce sotto terra.

giovedì 18 novembre 2010

«Noi, i poveri del calcio dorato»

Da Carrara a Massa ci sono appena 8 km di strada, ma c’è di mezzo il mare (le due Marina) e nella rete ci sono finiti da un pezzo i due bomber “indigeni” del calcio degli anni ’70-’80: il carrarino Marco Cacciatori, 54 anni e il massese Dante Bertoneri, 47 anni. Uniti da un triste, ma per niente insolito destino: quello dell’ex calciatore professionista che dopo aver accarezzato la polvere di stelle, a fine carriera si è ritrovato nel fango del dio pallone.

Marco e Dante non si sono mai incrociati nel derbyssimo Carrarese-Massese e così si ritrovano da ex, dopo tanti anni e con qualche capello in meno, a “sfidarsi” con le miserie e gli splendori di una vita spesa per il calcio. Seduti ai tavoli di un Bar di Carrara bevono un caffè dolceamaro come i loro ricordi. «Avevo 23 anni – attacca Cacciatori – quando un’estate mi sono ritrovato dalla D alla Serie A, nel Perugia di Castagner. Un Perugia da record, imbattuto - 30 partite su 30 - e il sottoscritto che al debutto a San Siro segnò un gol all’Inter. Roba che quando ci ripenso mi viene da piangere...». Ma le lacrime sarebbero arrivate purtroppo in quell’estate e non perché il Perugia lo aveva venduto come «pedina di scambio» per portare Paolo Rossi in Umbria, ma perché una volta passato al Vicenza scoprì di avere un tumore ai testicoli. 

«Ero in ritiro quando mi diagnosticarono un “carcinoma embrionale”. Due operazioni e poi dal Vicenza passai al Genoa. Tornai in campo contro il Cesena e sentivo che avevo il fiato corto, il polmone destro era entrato in metastasi. Tre anni di chemioterapia, vissuti con il terrore di non farcela... Poi ne sono uscito fuori e ho giocato fino a 35 anni, ma quelle stagioni di stop sono andate in fumo. Quattro anni persi per la mia pensione da calciatore professionista dopo una carriera chiusa con 168 gol». Alcuni anni fa Avvenire si occupò del “caso Cacciatori” sollecitando una campagna di sensibilizzazione, affinché qualche club si facesse carico di quei 4 anni di contributi mancanti. Il “Caceta”, così lo chiamano i tifosi, nel frattempo per mandare avanti la famiglia si era impiegato come trasportatore alle cave di Carrara. «Alla fine l’Enpals mi ha accordato 1.080 euro di pensione, ma 480 se ne vanno in contributi volontari e poi c’è l’affitto della casa, 450 euro. Se non ci fossero i 400 euro - per sei mesi l’anno - che mi dà l’Oratorio Don Bosco di Nazzano per allenare una squadra di ragazzi, io e mia moglie - disoccupata - saremmo ridotti alla fame. 

Sopravviviamo con 500 euro al mese...». Dante scrolla la testa, conosce bene il peso di quel vivere sempre appeso al filo di un rasoio. Il suo presente è «precarissimo», quanto quello di Cacciatori e il passato di gloria, ormai lontano, lo ripercorre rapido, con il passo del podista «campione italiano over 40». Ultimo retaggio del grande talento, il cursore del Torino primi anni ’80 che impressionò persino la Juve di Trapattoni. «Sergio Vatta diceva che ero il miglior giovane del Toro e infatti debuttai in A a 17 anni. Dopo i primi articoli, con il mio nome a carattere cubitali sui giornali sportivi, pensavo di aver sfondato, ma nell’estate dell’83 il ds Luciano Moggi con il suo solito modo autoritario mi fece: “Caro Dante: l’anno prossimo te ne vai a Cesena...”. 

Mi voleva spedire in B: alla fine rimasi in A, nell’Avellino, ma dopo un inizio convincente cominciarono i problemi e me ne scappai a Massa... Di Somma venne a riprendermi promettendo a mio padre che se mi avesse convinto a tornare ad Avellino gli avrebbero regalato un Ape Piaggio... Mio padre è morto e quell’Ape non l’ha mai visto. Io ho cominciato a stare male e la situazione precipitò a fine stagione quando mi mandarono al Parma...». Sospira Bertoneri, questo è il capitolo più amaro: «Ero infortunato, menisco, ma Carmignani voleva che giocassi a tutti i costi. Avevo tanto di certificato medico, ma lui niente, insisteva: “Non fare storie su, in campo ci puoi andare...”. Io mi rifiutai e così dissero che mi ero reso colpevole di “insubordinazione”. 

Mi mandarono via e fui accusato di avere comportamenti inadeguati alla squadra, solo perché non volevo farmi le iniezioni di Cortex o perché evitavo di prendere il Micoren. Avevo paura di quella roba là e poi stavo male sul serio. Mi venne diagnosticata una grave forma di esaurimento nervoso che non mi ha più abbandonato e ha segnato il successivo passaggio. Come Marco ho giocato nel Perugia, ma andò male e alla fine sono venuto a chiudere alla Massese». Squadra che ha sempre amato e che dopo il fallimento di due anni fa avrebbe voluto rilevare con un gruppo di appassionati.

Alla fine ha messo in piedi una squadra dilettantistica, l’Asd Massese, che porta avanti suo fratello Fabrizio. «Io non ho i mezzi per fare il presidente. Sono sei anni che busso ovunque chiedendo un lavoro e trovo solo porte chiuse. La settimana prossima comincio un corso per operatore familiare, sono disposto a fare anche il badante, l’importante è lavorare perché vorrei sposare Marilia. È la mia ragazza, l’ho conosciuta a un gruppo di preghiera nella chiesa di San Sebastiano a Massa. Solo lei e la fede mi dà la forza di resistere, altrimenti qui ogni giorno diventa sempre più dura. Dal Torino tante promesse, ma poi sono spariti tutti...». 

Cacciatori annuisce e poi sbotta: «Sono tre anni che sto a casa ... Il mondo del calcio una volta che hai smesso si dimentica di quello che hai fatto, specie per la squadra della tua città. Se Buffon e Lucarelli mi chiamassero alla Carrarese, io sarei disposto a fare anche il custode dello stadio. Ma non chiama mai nessuno...». Marco e Dante si abbracciano e si salutano con una speranza: ritrovarsi al Bar a brindare con il primo stipendio di un lavoro. Sarebbe il gol più bello della loro vita.

domenica 31 ottobre 2010

Ricetta Prandelli: «Allenare ai valori è il gol più bello»

«Ricercare il risultato attraverso il gioco, senza fare pressioni di sorta e soprattutto insegnando il rispetto delle regole. Per un allenatore giovanile il vero successo è trasmettere ai ragazzi valori che abbiano un solido fondamento etico e siano essenziali e funzionali ad un cammino responsabile e consapevole nella società».

La ricetta è firmata Cesare Prandelli, commissario tecnico della nazionale azzurra di calcio, che oggi pomeriggio sarà a piazza del Popolo, a Roma, a disposizione dei bambini e dei giovanissimi dell’Azione Cattolica, reduci dall’incontro della mattinata, in piazza San Pietro, con Benedetto XVI. Promette di essere una grande festa quella dell’incontro con il Pontefice, all’insegna dello slogan “C’è di più, diventiamo grandi insieme”, che si richiama al tema della sfida educativa lanciata dalla Cei. Come entra lo sport in questa sfida? Rilanciamo la palla al ct degli azzurri.

Il mondo dello sport professionistico può essere un grande modello educativo, ma talvolta non lo è. Come, secondo lei, è possibile aiutarlo a sentire la responsabilità di dare sempre il buon esempio ai giovani?
«Il calciatore professionista, il campione in quanto tale, è senza dubbio un modello di riferimento nella società e in particolare per i giovani. Tenere e fare proprio un comportamento corretto dentro e fuori dal terreno di gioco è, a mio avviso, un ulteriore arricchimento di tutto quanto di positivo un campione può rappresentare. Ecco perché è fondamentale che l’ambiente nel quale il campione vive e si forma proponga modelli virtuosi in tutti gli stadi del processo evolutivo».

Forse saprà che dopo i fatti di Genova, il Csi ha proposto di rigiocare Italia-Serbia con degli Under 14 in uno stadio pieno di bambini. Cosa ne pensa? Verrebbe a sedersi in panchina quel giorno?
«Penso che tutto quanto possa aiutare i ragazzi nel comprendere l’importanza del rifiuto della violenza, la differenza tra avversario e nemico, tra agonismo sportivo e guerra, sia importante. Se non avrò la possibilità di partecipare in prima persona a questa iniziativa, sarò comunque idealmente vicino ai ragazzi che quel giorno scenderanno in campo».

La sua vicenda personale ha evidenziato la sua grande dose di umanità. Ha saputo anteporre sempre l’uomo al professionista. Tanto da meritarsi un riconoscimento speciale dal Cardinal Tettamanzi. Si riesce ad essere “umani” anche allenando la Nazionale?
«Il rapporto umano è alla base di un ruolo di leadership in un contesto particolare come una squadra. Se non hai la capacità di ascoltare, di motivare, di rassicurare, suggerire e trasferire con autorevolezza il tuo messaggio al gruppo di uomini che sei chiamato a guidare, probabilmente hai sbagliato mestiere».

Il Csi è molto attivo nella parrocchie e negli oratori. Quale incoraggiamento “azzurro” lancia ai tanti allenatori che lavorano in quel contesto avendo a cuore l’educazione dei giovani?
«Che avvertano sempre il piacere di trasmettere ai giovani tre concetti: il rispetto delle regole, il piacere di acquisire i fondamentali del calcio attraverso il gioco, e soprattutto che ciascuno possa sempre esprimersi sul campo secondo le proprie caratteristiche psicofisiche, lasciando perdere tattiche e tatticismi esasperati che tolgono al calcio, e allo sport in genere, il piacere di praticarlo».

Ci promette un giorno di fare un salto in un oratorio Csi? Ne conosce uno in particolare?
«Sono praticamente nato in un oratorio Csi, il “Jolly” di Orzinuovi, in provincia di Brescia. Ricordi indimenticabili...».

Avendo allenato tanti giocatori, saprebbe indicare chi possa essere scelto come “capitano” da prendere come modello educativo?
«In generale il capitano è una figura fondamentale. È colui che in una squadra rappresenta in maniera naturale un vero e proprio punto di riferimento per i propri compagni. Che in campo e nello spogliatoio è unanimemente riconosciuto come leader per qualità morali, personalità, valore umano e atletico. È quello che mette sempre la propria faccia in tutte le situazioni, nella buona e nella cattiva sorte. Ed è un riferimento imprescindibile anche per l’allenatore. Personalmente mi ritengo fortunato: da calciatore ho avuto un grande capitano come Gaetano Scirea, in Nazionale ho gente del calibro di Pirlo, De Rossi e Zambrotta, per non parlare di Gigi Buffon che attendiamo a braccia aperte».

venerdì 8 ottobre 2010

Zero crisi, il pallone resta d'oro

Non c’è crisi che tenga, il pallone continua a gonfiarsi. A suon di milioni di euro iniettati nelle casse dei club, che poi ne versano buona parte (più del 60%) nelle tasche dei loro strapagati campioni. Un circolo vizioso, dal punto di vista etico. Ma assolutamente virtuoso sotto il profilo economico.


Il fatturato della Serie A cresce infatti senza sosta: nel 2008-2009 è aumentato di 73 milioni di euro rispetto alla stagione precedente, arrivando a 1498 milioni. Quest’anno le cose dovrebbero andare ancora meglio, perché con gli 860 milioni ricavati dalla vendita collettiva dei diritti tv la quota dei 1500 milioni verrà abbondantemente superata. Grazie a questa novità guadagnano tutti, grandi e piccole. Inter e Milan incasseranno 4,5 milioni in più, la Juve addirittura 10 e la Roma 11. Ma il beneficio si farà sentire soprattutto per la fascia media: 17 milioni in più per la Sampdoria, 14 per il Napoli, 11 e mezzo per il Bari, 10 e mezzo per Genoa e Lazio.

Non c’è quindi da stupirsi troppo se i calciatori continuano a battere cassa, opponendosi al volere della Lega Calcio che vorrebbe imporre contratti legati in buona parte al rendimento. Il calcio va alla grande in tutta Europa: oltre alla Serie A, anche le altre quattro "top league" hanno incrementato il giro d’affari. Secondo gli ultimi dati della Deloitte, la regina resta la Premier League inglese con un incremento del 3%, in parte annacquato dalla svalutazione della sterlina rispetto all’euro: 2326 milioni contro i 2441 dell’anno prima. Al secondo posto la tedesca Bundesliga con 1575 milioni (+10%), al terzo la Liga spagnola con 1501 (+4%). Persino la Ligue francese, al quinto posto dopo la Serie A, continua a contare denari: nel 2008-2009 ha sfondato il milione di euro per la prima volta. 

A gonfiare il pallone ci pensano anche gli sponsor: nelle casse dei club italiani entrano almeno 58 milioni di euro, considerando solo i contratti pubblicitari principali. Le cinque società che incassano di più dallo sponsor principale (Juve, Milan, Inter, Roma e Napoli), hanno visto nell’ultima stagione un incremento medio dei ricavi del 3,6%. Un dato che bilancia la parziale perdita di appeal degli altri 15 club, che hanno perso mediamente il 12,4%. Nel complesso, la Serie A "tiene", cedendo solo il 2,8% rispetto alla stagione 2008/2009. Il dato è solo in apparenza negativo, visto che gli investimenti degli sponsor sul mercato italiano sono calati del 10,4%.  In Europa la Serie A è terza con 3,5 milioni di media per squadra. Il campionato più attraente per i marchi commerciali è la Bundesliga, con una media per club di 6,3 milioni di euro (+ 5% rispetto alla stagione precedente).

La vera miniera d’oro però è la Champions League: da quando c’è la nuova formula, l’Uefa ha elargito milioni a pioggia. Secondo l’analisi di Stage Up, dal 2003 a oggi la squadra che ha incassato più denaro è il Manchester United: 216,6 milioni di euro. Grazie alla vittoria del maggio scorso, l’Inter occupa il quarto posto con 174 milioni, il Milan è nono con 154 milioni raggranellati in sei partecipazioni. Quest’anno il piatto sarà più ricco che mai: l’Uefa sgancerà ai club un totale di 758,6 milioni, circa 10 in più della stagione scorsa. Chi partecipa ai gruppi eliminatori intasca 3,9 milioni a prescindere dalla qualificazione, poi 800 mila per ogni vittoria e 400 mila per il pareggio. Più si vince più si incassa: 3 milioni per chi arriva agli ottavi, 3,3 per i quarti e 4,2 per la semifinale, fino ai 9 milioni per chi vince la Coppa. Senza contare il marketing e gli incassi del botteghino. È questo il vero Pallone d’Oro.

martedì 5 ottobre 2010

Ulivieri, il mister che fa correre i preti

Per fare l’allenatore di calcio, specie in Italia, ci vogliono spalle larghe, carisma e passione da vendere. Quando poi, a quasi 70 anni, si decide di diventare «direttore tecnico» della Nir (Nazionale italiana religiosi) allora occorre anche un po’ di «vocazione». E quella a Renzo Ulivieri, il «Renzaccio», non è mai venuta meno. 

Così quando quattro anni fa Padre Leonardo Biancalani e i religiosi calciofili sparsi per le parrocchie e i conventi d’Italia, gli hanno chiesto di diventare il ct della loro Nazionale, Ulivieri non ci ha pensato su tanto e ha accettato. Debutto della Nir nel 2006 su un campo molto particolare: il carcere di Rebibbia. «Non mi ricordo se si vinse o meno, forse perdemmo, perché noi siamo una squadra di cuore e spesso porgiamo anche l’altra gamba, ma ho bene in mente una scena che mi toccò. Quel giorno fra Enzo, uno dei miei giocatori, nel terzo raggio di Rebibbia ritrovò un suo compagno d’infanzia e si abbracciarono. Ci siamo commossi tutti. E allora pensai, forse anche a un pallone riescono dei piccoli miracoli...». 

Faccia d’attore, buona per la commedia all’italiana di Monicelli, il «mister», come lo chiamano tutti, ha il cuore tenero, «ma sul campo – avverte – non voglio noie, si corre e si suda. Punto». Così una volta al mese scatta il ritiro «calcistico spirituale» per questa specialissima nazionale che da bertinottiano considera una «rifondazione religiosa attraverso il calcio». 

«Ragazzi correre, far circolare la palla, siete preti e frati mica calciatori. E ricordatevelo sempre, Maradona non abita qui...». Eccolo che viene allo scoperto il «maledetto» toscanaccio malapartiano, il comunista, il «mangiapreti». «Potevano aver pensato giusto su quasi tutto, ma io mangiapreti mai stato. Come tanti della mia generazione venuta su nel dopoguerra, sono cresciuto frequentando sia la Casa del popolo che la parrocchia. Alla prima devo la mia formazione umana e ideologica; quella spirituale e soprattutto culturale, mi deriva dalla frequentazione di don Giuseppe. È grazie a quel gran prete che ho imparato a leggere e scrivere, ad amare il latino, ad appassionarmi ai libri di Giorgio La Pira e don Lorenzo Milani. Lettera a una professoressa è il testo base che mi ha guidato in tutto il mio lungo percorso professionale». 

Un cammino, quello del «mister» cominciato alla vigilia dei moti sessantottini nella squadra del suo paese, a San Miniato, e proseguito ininterrottamente per quarant’anni, attraversando tutta l’Italia, allenando da nord a sud, da Vicenza a Reggio Calabria, alla guida di 20 squadre diverse. Ultima panchina, quella della Reggina, stagione 2007-2008. Da poco ha riposto nell’armadio l’amuleto, il suo vecchio e consumato cappotto blu «quattro stagioni», con il quale si presentava regolarmente in campo. «Una volta a Ravenna l’ho indossato alla fine di giugno, testimone il cardinale Ersilio Tonini che sedeva accanto a me e mi guardava stupito... Guarda caso mi avevano squalificato anche quella domenica. Comunque nessuna superstizione, quel cappotto era solo un gioco». Anche questa avventura con la Nazionale religiosi è solo un gioco, ma forse anche un modo per stare più vicino a gente che parla con Dio tutti i giorni. 

«Prima di ogni partita mister Ulivieri ci dice sempre: “Su ragazzi, una preghiera non fa mai male”. E così a centrocampo, mano nella mano, si recita insieme il Padre nostro», racconta padre Leonardo che – appesi gli scarpini al chiodo (infortunio alla spalla) – è diventato il presidente onorario della Nir. «La fede è una cosa seria e non si può mica confondere con una partita di pallone. Solo all’inizio della carriera mi capitò di chiedere a un prete se veniva a benedire la squadra con la motivazione: da settimane non c’è verso di fare gol. E il padre indignato mi rispose: “Renzo vergognati, tu pensi che il Signore debba scomodarsi per queste bischerate?”... Aveva ragione». Saggezza dell’uomo che i suoi colleghi hanno scelto come capo dell’Assoallenatori. 

«Mi hanno liberato dalla tv, alla domenica il calcio ormai lo vedevo solo lì. Oggi invece grazie a questo incarico posso andare a seguire le partite allo stadio senza che nessuno possa dire: “È venuto a gufare per prendersi la panchina che salta”». Storie di cuoio vecchie e lontane, come le discussioni con Roberto Baggio ai tempi del Bologna, «finì che se ne andò, ma finché è rimasto parlavamo anche di buddhismo». Beghe di spogliatoio, come il litigio furibondo con Antonio Cassano, in un Samp-Reggina, ma poi la mano sempre tesa, pronta per il perdono. «Antonio quando ci siamo ritrovati mi disse: “Mister adesso che abbiamo fatto pace, facciamo un’altra bella cosa, quella multa che ci hanno data raddoppiamola e il ricavato lo doniamo alla famiglia di Adriano Lombardi (calciatore morto di Sla)... Sono i ragazzi come Cassano, quelli più difficili, che mi hanno stimolato di più a fare questo mestiere. In fondo penso che da quella panchina ho sempre cercato di portare dalla mia parte il “figliol prodigo”». 

Nel mezzo del suo cammino però, ha incontrato anche tanti buoni samaritani, anime candide alla Damiano Tommasi. «Su tutti faccio due nomi: Lorenzo Minotti che è anche il padrino della mia bambina Valentina e Demetrio Albertini, vicepresidente della Federcalcio». Menti passate dall’università del calcio di Coverciano, dove Ulivieri presiede ai corsi che ogni anno diplomano i nuovi tecnici italiani. «Una scuola di alto livello in cui si cerca di insegnare che il “tecnico vero” è un punto di riferimento e un educatore che deve avere il carisma del capo senza però apparire tale. I calciatori devono riconoscerlo prima di tutto come una persona per bene». 

Una figura in continua evoluzione quella dell’allenatore, ma per Ulivieri è fondamentalmente ancora quella che si leggeva nella dicitura del vecchio patentino: «maestro di vita». «Un ragazzo che gioca a calcio tra allenamenti e partite trascorre almeno 6-8 ore alla settimana con il suo allenatore, il quale corre il rischio di essere pure ascoltato. E se questo accade, vuol dire che ha fatto un lavoro superiore e sostitutivo spesso a quello della famiglia, perché il problema è che questi ragazzi in casa non parlano più. Il calcio dunque diventa uno strumento di comunicazione, aiuta a stare in gruppo, a non sentirsi emarginati e inoltre funziona da grande strumento terapeutico». 

Da tempo infatti Ulivieri segue i ragazzi di un’altra squadra speciale quanto la Nir, la Matrix di Firenze, formazione composta da ragazzi e adulti con disabilità fisiche e psichiche. Il calcio non è una fede, ma è comunque un credo universale che ha i suoi comandamenti e in cima; Renzaccio, da ex «smoccolatore», mette il divieto di bestemmia in campo. «È un fenomeno di cattiva educazione, ma le squalifiche severe dell’ultimo anno sono servite a diminuire i casi di bestemmiatori su tutti i campi». 

La riconquista di un senso civico può ripartire a anche dal rispetto delle regole di un gioco. «Ai giovani dico sempre che potremo vivere in un un mondo diverso e migliore di questo, solo se tutti ci si impegniamo a fare la nostra parte. La mia paura è che le nuove generazioni siano state abbandonate al loro destino e si stanno assopendo. Per risvegliarli occorre spiegargli che è molto più vantaggioso darsi agli altri, piuttosto che chiudersi nel proprio egoismo. Spegniamo la televisione, torniamo a parlare con i nostri figli e facciamogli capire che il bene più prezioso che esista è la felicità. E questa, deve spettare a tutti». Nessuna pretattica, sono i pensieri che arrivano dall’anima del mister che assicura: non ha nessuna intenzione di rubare il mestiere ai giocatori della Nir. «Su un pulpito sarei in fuorigioco. Io farò l’allenatore anche nell’aldilà. Mi sono informato e mi hanno assicurato che giocano a calcio pure lassù, dove ho tanti amici... A me basta un fischietto per gli allenamenti e una panchina da cui urlare per 90 minuti».