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domenica 31 ottobre 2010

Ricetta Prandelli: «Allenare ai valori è il gol più bello»

«Ricercare il risultato attraverso il gioco, senza fare pressioni di sorta e soprattutto insegnando il rispetto delle regole. Per un allenatore giovanile il vero successo è trasmettere ai ragazzi valori che abbiano un solido fondamento etico e siano essenziali e funzionali ad un cammino responsabile e consapevole nella società».

La ricetta è firmata Cesare Prandelli, commissario tecnico della nazionale azzurra di calcio, che oggi pomeriggio sarà a piazza del Popolo, a Roma, a disposizione dei bambini e dei giovanissimi dell’Azione Cattolica, reduci dall’incontro della mattinata, in piazza San Pietro, con Benedetto XVI. Promette di essere una grande festa quella dell’incontro con il Pontefice, all’insegna dello slogan “C’è di più, diventiamo grandi insieme”, che si richiama al tema della sfida educativa lanciata dalla Cei. Come entra lo sport in questa sfida? Rilanciamo la palla al ct degli azzurri.

Il mondo dello sport professionistico può essere un grande modello educativo, ma talvolta non lo è. Come, secondo lei, è possibile aiutarlo a sentire la responsabilità di dare sempre il buon esempio ai giovani?
«Il calciatore professionista, il campione in quanto tale, è senza dubbio un modello di riferimento nella società e in particolare per i giovani. Tenere e fare proprio un comportamento corretto dentro e fuori dal terreno di gioco è, a mio avviso, un ulteriore arricchimento di tutto quanto di positivo un campione può rappresentare. Ecco perché è fondamentale che l’ambiente nel quale il campione vive e si forma proponga modelli virtuosi in tutti gli stadi del processo evolutivo».

Forse saprà che dopo i fatti di Genova, il Csi ha proposto di rigiocare Italia-Serbia con degli Under 14 in uno stadio pieno di bambini. Cosa ne pensa? Verrebbe a sedersi in panchina quel giorno?
«Penso che tutto quanto possa aiutare i ragazzi nel comprendere l’importanza del rifiuto della violenza, la differenza tra avversario e nemico, tra agonismo sportivo e guerra, sia importante. Se non avrò la possibilità di partecipare in prima persona a questa iniziativa, sarò comunque idealmente vicino ai ragazzi che quel giorno scenderanno in campo».

La sua vicenda personale ha evidenziato la sua grande dose di umanità. Ha saputo anteporre sempre l’uomo al professionista. Tanto da meritarsi un riconoscimento speciale dal Cardinal Tettamanzi. Si riesce ad essere “umani” anche allenando la Nazionale?
«Il rapporto umano è alla base di un ruolo di leadership in un contesto particolare come una squadra. Se non hai la capacità di ascoltare, di motivare, di rassicurare, suggerire e trasferire con autorevolezza il tuo messaggio al gruppo di uomini che sei chiamato a guidare, probabilmente hai sbagliato mestiere».

Il Csi è molto attivo nella parrocchie e negli oratori. Quale incoraggiamento “azzurro” lancia ai tanti allenatori che lavorano in quel contesto avendo a cuore l’educazione dei giovani?
«Che avvertano sempre il piacere di trasmettere ai giovani tre concetti: il rispetto delle regole, il piacere di acquisire i fondamentali del calcio attraverso il gioco, e soprattutto che ciascuno possa sempre esprimersi sul campo secondo le proprie caratteristiche psicofisiche, lasciando perdere tattiche e tatticismi esasperati che tolgono al calcio, e allo sport in genere, il piacere di praticarlo».

Ci promette un giorno di fare un salto in un oratorio Csi? Ne conosce uno in particolare?
«Sono praticamente nato in un oratorio Csi, il “Jolly” di Orzinuovi, in provincia di Brescia. Ricordi indimenticabili...».

Avendo allenato tanti giocatori, saprebbe indicare chi possa essere scelto come “capitano” da prendere come modello educativo?
«In generale il capitano è una figura fondamentale. È colui che in una squadra rappresenta in maniera naturale un vero e proprio punto di riferimento per i propri compagni. Che in campo e nello spogliatoio è unanimemente riconosciuto come leader per qualità morali, personalità, valore umano e atletico. È quello che mette sempre la propria faccia in tutte le situazioni, nella buona e nella cattiva sorte. Ed è un riferimento imprescindibile anche per l’allenatore. Personalmente mi ritengo fortunato: da calciatore ho avuto un grande capitano come Gaetano Scirea, in Nazionale ho gente del calibro di Pirlo, De Rossi e Zambrotta, per non parlare di Gigi Buffon che attendiamo a braccia aperte».

domenica 25 luglio 2010

Un popolo di allenatori, ma precari


Sessanta milioni di ct, quando gioca l’Italia, ma siamo proprio il paese degli allenatori: 15mila associati all’Aic, 40mila complessivamente sono in attività nelle categorie legate alla federazione, compresi i settori giovanili, senza considerare le migliaia di tecnici dei campionati amatoriali, Csi e Uisp. Tanti “mister” hanno anche un altro lavoro, ovvio, però chiunque spera di affermarsi, di vivere di calcio, seguendo le orme magari di Arrigo Sacchi, nell’82 ancora alla Primavera del Cesena e 5 anni più tardi alla guida del Milan stellare.


«La nostra battaglia - racconta Renzo Ulivieri, 71 anni, presidente dell’Assoallenatori - è per avere un tecnico diplomato per ciascuna squadra. Adesso ne basta uno per l’intero settore giovanile, magari composto da ben dieci squadre. Passasse questa norma, si moltiplicherebbero i posti». È proprio così, si fatica a trovare spazio anche in panchina, come nella vita lavorativa comune. Non c’entra tanto la crisi economica, che unicamente sforbiciato i budget, ai livelli inferiori, è che l’Italia sforna allenatori o aspiranti tali a un ritmo insostenibile, tanto più se rapportato ai 132 posti nei club professionistici. «L’Associazione italiana calciatori (Aic) - sottolinea Ulivieri - è una libera associazione, non c’è obbligo di iscrizione, a differenza dell’albo del settore tecnico».

Insomma, Renzaccio rappresenta il sindacato allenatori con orgoglio e ardore. «Fra i nostri tesserati, 1.500 sono i professionisti, che hanno sempre svolto solo questa mansione. Pagano la quota annuale, anche se magari per varie stagioni di fila non sono operativi perché non hanno offerte o decidono di declinarle». Alcuni tra questi sono anziani, come Mazzone: «Mai dire mai - raccontava il “Sor Carletto” -, perchè devo mettere i manifesti e annunciare che smetto?.

Prima - riprende Ulivieri - a 65 anni il settore tecnico mandava in pensione, adesso si può restare in attività a oltranza: se uno ha voglia e trova chi lo chiama perché frenarlo? Ammetto che qui ho chiesto il cambiamento della norma anche ad personam... A tanti comunque piace restare legati alla categoria». Eugenio Bersellini ha 74 anni e nel 2007 tornò in panchina al Sestri Levante, in Serie D. Il presidente dell’Assoallenatori suggerisce proprio ai tesserati di scendere fra i dilettanti, anzichè restare inoperosi.

«Chi ha la qualifica di Seconda Categoria, ad esempio, è più bravo, teoricamente, di uno che ha studiato di meno». Altra priorità dell’Aic è l’accesso alla professione, da non riservare agli ex calciatori. «Dovremmo aumentare i corsi, abolire il numero chiuso. Come si fa a dire a uno che non si può iscrivere? Chiunque ha diritto, pagando, di frequentare e presentarsi all’esame, lì magari la promozione non è sottintesa». L’invito dell’Aic è di andare all’estero, come un lavoratore qualsiasi, perché è lì che può avere soddisfazioni superiori e stress inferiore. 

«La nostra scuola è importante, riconosciuta, si deve cominciare a lavorare fuori». Nevio Scala si è diplomato anche direttore sportivo, in Italia non allena dal ’97, Attilio Perotti, 64 anni, per una stagione e mezza è stato direttore tecnico del Piacenza. Un modo per reinventarsi una delle professioni più ambite e affollate. Siamo un popolo di allenatori è vero, ma precari.