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giovedì 3 marzo 2011

Delio Rossi: «Forse è meglio allenare i bambini»

È uscito di scena con le lacrime trattenute a stento, l’altro giorno nella conferenza stampa di addio. I tifosi rosanero Delio Rossi lo hanno acclamato però, specie dopo la frase: «Gli allenatori e i presidenti passano, il Palermo resta».
È finita così l’avventura siciliana di un tecnico che meritava un trattamento migliore. Da Zamparini come da Lotito alla Lazio, dopo la Coppa Italia vinta ai rigori sulla Sampdoria, senza dimenticare la qualificazione alla Champions League. Invece tre sconfitte in fila hanno fatto dimenticare lo spettacolo offerto con Pastore e Ilicic, la Roma rullata, le tre vittorie di fila sulla Juve, l’Inter sotto di due gol a San Siro.

Delio Rossi, ora lei è a guardare, mentre Allegri pregusta lo scudetto con il Milan dopo solo una breve esperienza al Cagliari, in Serie A. E Leonardo appena alla seconda stagione da tecnico lo contrasta con l’Inter...
«Loro sono arrivati subito alle grandi, io no. La gavetta però serve: sui campi sterrati, nelle categorie inferiori, si cresce».

Da seguace di Zeman, come lui è stato tradito dalla voglia di entusiasmare?
«Non sono allievo di nessuno, sarebbe sciocco e riduttivo considerarmi un clone del boemo. Ero capitano della sua squadra, il Foggia, nell’86-’87, e poi tecnico della Primavera, quando Zeman si impose all’attenzione nazionale. Non mi sono mai ispirato a lui, ma è fra i tecnici che stimo».

Tante squadre sono molto fisiche, lo spettacolo però si fa con la tecnica.
«Se hai giocatori veloci e di classe, che sanno fare l’uno contro l’uno, la tattica viene dopo: decidono i duelli, aggiudicandosene sette su undici si vincono le partite».

Come si spiegano le difficoltà in trasferta del Palermo, al di là degli 11 gol subiti nelle ultime due gare in casa?
«Abbiamo venduto Simplicio, Cavani e Kjaer, ovvero i pilastri di ciascun reparto, ringiovanito la rosa. La squadra ha futuro, anche se non raccoglie subito. Crescerà».

Furoreggiano gli attaccanti di stazza piccola: Di Natale, Sanchez, Di Vaio. Lo stesso Miccoli portò il Palermo al quinto posto, un anno fa...
«Il calcio è lo sport più democratico: nel basket, a pallavolo e a tennis vince la prestanza, a pallone ci sono il brevilineo, l’agile, il roccioso; la differenza è nella qualità. Gli attaccanti grossi hanno fisicità ma offrono meno spettacolo».

Ecco, lei come fa a divertire quasi sempre con le sue squadre?
«Amo un calcio propositivo, organizzato. La squadra deve avere uno spartito, nel possesso e non, seguire un filo logico».

E quel chewing-gum divorato, come forse solo Ancelotti sa fare?
«È un surrogato delle sigarette, mi mancano tanto, in panchina. Anzi, mi mancava...».

Chi vincerà lo scudetto?
«Prima dell’inizio del campionato pensavo all’Inter, ora invece dico Milan».

Qual è il miglior giovane?
«Dico Pastore, per affetto e riconoscenza nei confronti dei giocatori che ho allenato sino a domenica sera, anche se magari non ne sono convinto del tutto».

Il presidente Zamparini da tempo la criticava per la fase difensiva.
«Quando qualificai la Lazio alla Champions League non subivo tanti gol. Dipende sempre dalle caratteristiche dei giocatori, con Cassani e Balzaretti in fascia devi avere centrali molto rapidi che sappiano leggere le situazioni. Gli schemi belli non bastano, servono equilibrio e un buon saldo fra reti all’attivo e al passivo».

Come si giustifica quel febbraio con solo la vittoria a Lecce?
«Questo Palermo era la squadra più talentuosa e difficile che abbia guidato, con molti talenti a briglia sciolta. Io sono irrazionale di natura, ma razionale sul campo».

Come valuta i torti arbitrali che tante volte avevano innescato il presidente?
«Le piccole non interessano. La guerra in Iraq è considerata nel mondo per il petrolio, del Darfour non frega niente a nessuno. Accade la stessa cosa nel calcio italiano».

Zamparini minaccia spesso di lasciare, ma vale la pena che i proprietari continuino a indebitarsi per il calcio?
«Non conosco filantropi, una volta si investiva per amore di maglia, chiunque ha un ritorno».

Lei ha 51 anni, allena da 21, sino a quando continuerà?
«Non per molto. O mi accende un progetto o preferisco restare fermo. Vivo la professione 24 ore al giorno, in maniera totalizzante. Ora vorrei tornare a guidare i bambini, sono prestato al professionismo».

Spalletti, Ancelotti e Zaccheroni hanno vinto fuori dall’Italia, Mancini ci prova. Li imiterà?
«L’estero mi affascina, ma un posto di mare, dove c’è il caldo. Non amo il freddo. A parte sei mesi a Bergamo, ho lavorato solo in città di mare. Con l’acqua ho un buon rapporto, è lì, mi dà sicurezza. Chi va in Russia comunque non lo fa per esperienza di vita, ma perchè è ben pagato».

Del Neri è approdato alla Juve a 60 anni, Rossi arriverà mai a una squadra da scudetto?
«Mi ritengo fortunato per quanto ho avuto. Mi piace la professione, è pure ben retribuita. Ho tantissimo rispetto per chi lavora in Lega Pro, ho quasi sempre firmato anno per anno, a Palermo avevo un biennale a scadenza in giugno».

Il Napoli è vicino a qualificarsi per la prossima Champions League...
«La differenza tra Nord e Sud non sta nell’intelligenza delle persone, ma nelle strutture e nel potere economico. Il Napoli che vince fa bene a tutti».

domenica 13 febbraio 2011

Abodi: il bello di essere persone di Serie B

Attenzione, abbiamo scoper­to che per i corridoi di via Ro­sellini, si aggira uno “special one” è il presidente della Lega di Se­rie B Andrea Abodi. Romano 50enne, un esperto di economia dello sport, prestato al calcio che gioca molto di testa. E in testa ha due mission che finora nella palude del sistema pal­lonaro sembravano impossibili, «un calcio a dimensione umana» e un «patto di rilancio di tutto il movimento nella sua globalità». 

Idee che suonano nuo­ve come il suo volto nel conservatorismo del Palazzo di cuoio... 
«So di essere un piace­vole incidente di per­corso. Non è un miste­ro che la mia elezione abbia sorpre­so molti, anche perché la mia can­didatura è maturata dalla base e di questo vado estremamente fiero».
Che conseguenze ci sono state con la scissione dalla Lega di Serie A?
«Sono arrivato a separazione già consumata, ma è stato un distacco indolore. Dividersi per la Lega di B ha significato voltare pagina, com­prendere le proprie peculiarità: ri­manere sì una categoria assistita dal­la Serie A, ma non più calata in una dimensione di pernicioso assisten­zialismo. Inoltre, finita l’era delle conflittualità e la politica dei picco­li orticelli, ora si lavora sulla coope­razione. Se la massima serie alza il suo profilo e cresce in qualità, non va più valutato solo come un aumento del divario con le altre Leghe, ma co­me la possibilità di arricchire l’inte­ro “Sistema”».
La nuova B quindi ora è più auto­noma anche dal punto di vista fi­nanziario?
«La Serie A, attraverso le scommes­se sportive in grandissima parte di matrice calcistica, contribuisce indi­rettamente a finanziare tutto lo sport italiano. E la massima serie ridistri­buisce all’interno del sistema-calcio anche il 10% dei diritti televisivi, con una mutualità che contribuisce al 65% dei ricavi della Serie B. Un altro dei nostri obiettivi è quello di gene­rare da soli oltre il 50% delle entrate».
Gira che ti rigira siamo sempre a par­lare di bilanci e di conti che devono tornare molto prima dei risultati sportivi.
«Sbagliato. Abbiamo una sensibilità a 360 gradi all’interno del- la Lega di B, dalle infrastrutture ai fi­nanziamenti, dal marketing alla par­te tecnico-sportiva. Non esiste un e­lemento o una singola progettualità al centro della quale non ci sia l’ele­mento per me fondante: la “Perso­na”. L’accezione “persona di serie B” che viene usata come dispregiativo, l’abbia­mo ribaltata nell’ingle­sismo fonico “Be” ovve­ro “essere” che è l’input da cui sta nascendo la Fondazione B Solidale.
La “povera” B, rispetto alla ricchissima Serie A, disporrà di una Fon­dazione che mira alla solidarietà?
«Il calcio per il sociale fa molto, ma a volte disperde le ri­sorse, perciò noi abbiamo scelto di seguire dei progetti mirati, come con la Caritas con la quale abbiamo col­laborato nel 2010 in occasione del­l’Anno della Povertà e proseguiremo anche in questa stagione che segna l’Anno del Volontaria­to. Poi dal campionato 2011-2012 ci concentreremo su cinque progetti in altrettan­te categorie: l’infanzia, la ter­za età, la diversa abilità, la ri­cerca scientifica, l’emargi­nazione sociale. Progetti che seguiremo dall’inizio alla fi­ne. Così come continueremo a perseguire anche in campo le tre progettualità principa­li che abbiamo prefissato».
E quali sarebbero le tre pro­gettualità di base?
«La giovane età dei nostri calciatori, la loro italianità e il radicamento al territorio. Rispetto alla passata stagio­ne abbiamo abbassato l’età media dei calciatori di sei mesi (25 anni e 11 mesi). L’81% delle rose sono com­poste da giocatori italiani (10 convocati nell’Under 21) e questo non è una discrimi­nante, perché nell’italianità rientrano anche quei tanti ragazzi di origini extraco­munitaria che sono nati e cresciuti nel nostro Paese. Il rapporto diretto tra una so­cietà calcistica e il suo terri­torio è molto importante per creare una dimensione al- largata dello stadio».
Sì, però intanto anche in B si vedo­no delle tribune che sembrano il de­serto dei Tartari.
«Questo dipende da un processo di “televisionizzazione”, ma anche da una problematica che io definirei di atmosfere poco at­traenti e rassicuranti dovute a stadi che per l’80% sono stati co­struiti negli anni ’40 del secolo scorso, molti dei quali, pur mantenen­do un certo fascino sto­rico, sono inadeguati e andrebbero ristruttu­rati o ricostruiti. Nono­stante tutto, la media delle presenze (5.136 spettatori) è in linea con la passata stagione. E dalla Tv arriva un più 44% di ascolti e una crescita abbonati Sky e Dahlia molto significativa, a di­mostrazione di un interesse sempre maggiore per il nostro campionato».
Ma non si era detto “troppe partite in tv” e che l’obiettivo era riportare i bambini e le famiglie allo stadio?
«Noi stiamo elaborando un proget­to che abbiamo denominato “100mila ragazzi allo stadio”, con lo stadio che entra nella scuola e vice­versa. Per noi lo stadio del futuro non sarà più solo un impianto, ma un luogo dove con­frontarsi e formarsi su questioni ambientali (produzione e consu­mo di energie rinno­vabili e smaltimento differenziato dei rifiu­ti), sulle eccellenze a­groalimentari del ter­ritorio che il club cal­cistico rappresenta degnamente. Il calcio è una risorsa culturale ed è an­che per questo che stiamo partendo con una convenzione con i Beni Cul­turali perché possano accedere ai musei di tutt’Italia gli abbonati e chi è in possesso della “tessera del tifo­so” delle squadre di Serie B».
Ma in B sta funzionando la “tessera del tifoso”?
«Va migliorata, perché da strumento di mero controllo, si arricchisca di contenuti positivi che la rendano at­traente a tutti gli effetti. È quello che noi stiamo facendo, con lo svilup­po del nuovo modello di marketing associativo che va in questa dire­zione. L’auspicio è che tutte queste iniziative contribuiscano anche alla costruzione di una vera cultura sportiva».
Termine che rimbalza spesso,“cultura sporti­va”, ma di cui nessuno sa mai dare una spiegazione convincente.
«La cultura sportiva potrebbe esse­re sintetizzata in una singola parola: “rispetto”. Rispetto per gli avversari, per se stessi, per le regole e per chi è chiamato a farle rispettare prima di tutto. Spesso, tra i giocatori, i tecni­ci e i dirigenti si riscontra un deficit di conoscenza perfino delle regole del gioco. Perciò abbiamo deciso con l’Associazione Italiana Arbitri e la Can B di intensificare gli incontri con le società per sanare questi vuoti cul­turali con un’opera capillare di infor­mazione ».
La prossima settimana si discuterà di riforma dei Cam­pionati. Si va verso un nuovo assetto?
«Mi auguro di sì, con la riduzione della B a 20 squadre (stop ai ripe­scaggi e vecchia Serie C a 60 squadre). Il no­stro torneo non avrà più turni infrasettima­nali e continuerà a di­sputarsi al sabato. Il sa­bato del villaggio or­mai è quello della B e tornare alla do­menica vorrebbe dire scomparire. Mentre noi puntiamo ad “essere”. Es­sere sempre più visibili e crescere in­sieme ai grandi e ai più piccoli del nostro calcio».

mercoledì 1 dicembre 2010

«Stadi al capolinea» Il pallone ora piange

Siamo all’ultimo stadio. E non solo in senso metaforico. La prima neve caduta sul campionato ha fatto rumore e con essa le polemiche sugli impianti di Serie A. «Così il sistema non funziona», ha sbottato Maurizio Beretta, presidente della Lega, dopo il rinvio di Bologna-Chievo. Campo e spalti del Dall’Ara domenica sono stati ricoperti di uno spesso manto bianco, ma il peso piùà difficile da sostenere è quello degli anni di vecchiaia dell’impianto. 
E dire che il manto erboso dello stadio del Bologna ha generalmente una buona tenuta, e per l’occasione era coperto dai teloni. Ma il problema non è questo: più che il campo impraticabile a preoccupare le autorità è stata la sicurezza degli spettatori sugli spalti ricoperti di neve. «Il sistema degli stadi non funziona, bisogna andare verso impianti di proprietà delle società o profondamente ristrutturati. Abbiamo gli stadi più obsoleti d’Europa - aggiunge Beretta -. Pochi campi al nord sono riscaldati. E la parte dell’accoglienza, della sicurezza non è all’altezza dei concorrenti europei e della qualità del calcio italiano».  
La soluzione di cui si parla sempre è la legge che dovrebbe permettere di costruire nuovi stadi, che sta seguendo il suo iter in Parlamento. «Ci conto, l’appuntamento è in queste ore, siamo vicini a una soluzione - ha detto Beretta -. Il Senato approvò all’unanimità, mi auguro che alla Camera faccia lo stesso percorso».
Domenica sono saltate per il maltempo anche sei partite in Lega Pro e nove tra i dilettanti (serie D). Il presidente della Lega calcio chiama in causa il governo. «Questo sistema non può più funzionare in questo modo - insiste Beretta -. Si deve pensare a stadi di proprietà delle varie società per poter garantire una situazione più qualitativa rispetto a quello che vediamo oggi. È necessario dunque dare una svolta, che speriamo possa arrivare al più presto anche grazie al lavoro del governo».
 L’idea di Beretta e dei club è molto chiara. «In altri paesi gli stadi sono stati finanziati con un ammontare molto elevato di denaro pubblico. Noi pensiamo, molto responsabilmente, che nella situazione attuale del Paese e della finanza pubblica sarebbe sbagliatissimo chiedere anche solo un euro alle casse pubbliche, quindi vogliamo fare gli stadi senza togliere un euro al cittadino. Naturalmente nulla si costruisce dal nulla, le risorse ci vogliono, l’idea è di avere la possibilità di costruire qualcosa di collegato allo stadio, ma parametrato all’investimento. 
Le dimensioni sono decise dal Comune e dagli altri soggetti politici che parteciperebbero all’accordo di programma. Gli stadi oggi non solo non generano profitti, ma accumulano debiti», continua Beretta che a chi teme speculazioni risponde: «Chi non vuole gli stadi, chi non è amico del calcio ha gettato una luce falsa su quello che vogliamo: non ci sono speculazioni».
Ma Bologna in questi giorni è all’indice anche per la sua preoccupante situazione economica. «La Lega calcio non ha responsabilità per i problemi societari del Bologna», ha precisato Beretta in un intervento a “Radio Anch’io Sport” su Radio 1. «Non solo abbiamo vigilato - ha detto Beretta -, ma abbiamo messo in atto tutto quello che serviva. Il rapporto del Bologna con la Lega e con le altre società è garantito in maniera granitica, ci sono tutte le fidejussioni necessarie per le operazioni su cui ci spetta di vigilare. I passaggi proprietari invece sono responsabilità delle società: non siamo la Consob dei club».
Infine la questione sciopero. La clamorosa protesta da parte dei calciatori per il rinnovo del contratto sembra davvero vicina: «Stiamo cercando di fare un accordo collettivo nell’interesse del calcio e non di una sola parte - spiega Beretta - Serve dare stabilità al calcio per i prossimi anni. Prendiamo atto delle norme Uefa che impongono ai club il pareggio di bilancio, quindi qualche cosa in modo concordata va fatta, bisogna cambiare. Il tempo del gioco delle parti è finito, si deve lavorare per costruire un accordo utile al calcio. Un accordo nell’interesse di tutti».

giovedì 18 novembre 2010

«Noi, i poveri del calcio dorato»

Da Carrara a Massa ci sono appena 8 km di strada, ma c’è di mezzo il mare (le due Marina) e nella rete ci sono finiti da un pezzo i due bomber “indigeni” del calcio degli anni ’70-’80: il carrarino Marco Cacciatori, 54 anni e il massese Dante Bertoneri, 47 anni. Uniti da un triste, ma per niente insolito destino: quello dell’ex calciatore professionista che dopo aver accarezzato la polvere di stelle, a fine carriera si è ritrovato nel fango del dio pallone.

Marco e Dante non si sono mai incrociati nel derbyssimo Carrarese-Massese e così si ritrovano da ex, dopo tanti anni e con qualche capello in meno, a “sfidarsi” con le miserie e gli splendori di una vita spesa per il calcio. Seduti ai tavoli di un Bar di Carrara bevono un caffè dolceamaro come i loro ricordi. «Avevo 23 anni – attacca Cacciatori – quando un’estate mi sono ritrovato dalla D alla Serie A, nel Perugia di Castagner. Un Perugia da record, imbattuto - 30 partite su 30 - e il sottoscritto che al debutto a San Siro segnò un gol all’Inter. Roba che quando ci ripenso mi viene da piangere...». Ma le lacrime sarebbero arrivate purtroppo in quell’estate e non perché il Perugia lo aveva venduto come «pedina di scambio» per portare Paolo Rossi in Umbria, ma perché una volta passato al Vicenza scoprì di avere un tumore ai testicoli. 

«Ero in ritiro quando mi diagnosticarono un “carcinoma embrionale”. Due operazioni e poi dal Vicenza passai al Genoa. Tornai in campo contro il Cesena e sentivo che avevo il fiato corto, il polmone destro era entrato in metastasi. Tre anni di chemioterapia, vissuti con il terrore di non farcela... Poi ne sono uscito fuori e ho giocato fino a 35 anni, ma quelle stagioni di stop sono andate in fumo. Quattro anni persi per la mia pensione da calciatore professionista dopo una carriera chiusa con 168 gol». Alcuni anni fa Avvenire si occupò del “caso Cacciatori” sollecitando una campagna di sensibilizzazione, affinché qualche club si facesse carico di quei 4 anni di contributi mancanti. Il “Caceta”, così lo chiamano i tifosi, nel frattempo per mandare avanti la famiglia si era impiegato come trasportatore alle cave di Carrara. «Alla fine l’Enpals mi ha accordato 1.080 euro di pensione, ma 480 se ne vanno in contributi volontari e poi c’è l’affitto della casa, 450 euro. Se non ci fossero i 400 euro - per sei mesi l’anno - che mi dà l’Oratorio Don Bosco di Nazzano per allenare una squadra di ragazzi, io e mia moglie - disoccupata - saremmo ridotti alla fame. 

Sopravviviamo con 500 euro al mese...». Dante scrolla la testa, conosce bene il peso di quel vivere sempre appeso al filo di un rasoio. Il suo presente è «precarissimo», quanto quello di Cacciatori e il passato di gloria, ormai lontano, lo ripercorre rapido, con il passo del podista «campione italiano over 40». Ultimo retaggio del grande talento, il cursore del Torino primi anni ’80 che impressionò persino la Juve di Trapattoni. «Sergio Vatta diceva che ero il miglior giovane del Toro e infatti debuttai in A a 17 anni. Dopo i primi articoli, con il mio nome a carattere cubitali sui giornali sportivi, pensavo di aver sfondato, ma nell’estate dell’83 il ds Luciano Moggi con il suo solito modo autoritario mi fece: “Caro Dante: l’anno prossimo te ne vai a Cesena...”. 

Mi voleva spedire in B: alla fine rimasi in A, nell’Avellino, ma dopo un inizio convincente cominciarono i problemi e me ne scappai a Massa... Di Somma venne a riprendermi promettendo a mio padre che se mi avesse convinto a tornare ad Avellino gli avrebbero regalato un Ape Piaggio... Mio padre è morto e quell’Ape non l’ha mai visto. Io ho cominciato a stare male e la situazione precipitò a fine stagione quando mi mandarono al Parma...». Sospira Bertoneri, questo è il capitolo più amaro: «Ero infortunato, menisco, ma Carmignani voleva che giocassi a tutti i costi. Avevo tanto di certificato medico, ma lui niente, insisteva: “Non fare storie su, in campo ci puoi andare...”. Io mi rifiutai e così dissero che mi ero reso colpevole di “insubordinazione”. 

Mi mandarono via e fui accusato di avere comportamenti inadeguati alla squadra, solo perché non volevo farmi le iniezioni di Cortex o perché evitavo di prendere il Micoren. Avevo paura di quella roba là e poi stavo male sul serio. Mi venne diagnosticata una grave forma di esaurimento nervoso che non mi ha più abbandonato e ha segnato il successivo passaggio. Come Marco ho giocato nel Perugia, ma andò male e alla fine sono venuto a chiudere alla Massese». Squadra che ha sempre amato e che dopo il fallimento di due anni fa avrebbe voluto rilevare con un gruppo di appassionati.

Alla fine ha messo in piedi una squadra dilettantistica, l’Asd Massese, che porta avanti suo fratello Fabrizio. «Io non ho i mezzi per fare il presidente. Sono sei anni che busso ovunque chiedendo un lavoro e trovo solo porte chiuse. La settimana prossima comincio un corso per operatore familiare, sono disposto a fare anche il badante, l’importante è lavorare perché vorrei sposare Marilia. È la mia ragazza, l’ho conosciuta a un gruppo di preghiera nella chiesa di San Sebastiano a Massa. Solo lei e la fede mi dà la forza di resistere, altrimenti qui ogni giorno diventa sempre più dura. Dal Torino tante promesse, ma poi sono spariti tutti...». 

Cacciatori annuisce e poi sbotta: «Sono tre anni che sto a casa ... Il mondo del calcio una volta che hai smesso si dimentica di quello che hai fatto, specie per la squadra della tua città. Se Buffon e Lucarelli mi chiamassero alla Carrarese, io sarei disposto a fare anche il custode dello stadio. Ma non chiama mai nessuno...». Marco e Dante si abbracciano e si salutano con una speranza: ritrovarsi al Bar a brindare con il primo stipendio di un lavoro. Sarebbe il gol più bello della loro vita.

domenica 31 ottobre 2010

Ricetta Prandelli: «Allenare ai valori è il gol più bello»

«Ricercare il risultato attraverso il gioco, senza fare pressioni di sorta e soprattutto insegnando il rispetto delle regole. Per un allenatore giovanile il vero successo è trasmettere ai ragazzi valori che abbiano un solido fondamento etico e siano essenziali e funzionali ad un cammino responsabile e consapevole nella società».

La ricetta è firmata Cesare Prandelli, commissario tecnico della nazionale azzurra di calcio, che oggi pomeriggio sarà a piazza del Popolo, a Roma, a disposizione dei bambini e dei giovanissimi dell’Azione Cattolica, reduci dall’incontro della mattinata, in piazza San Pietro, con Benedetto XVI. Promette di essere una grande festa quella dell’incontro con il Pontefice, all’insegna dello slogan “C’è di più, diventiamo grandi insieme”, che si richiama al tema della sfida educativa lanciata dalla Cei. Come entra lo sport in questa sfida? Rilanciamo la palla al ct degli azzurri.

Il mondo dello sport professionistico può essere un grande modello educativo, ma talvolta non lo è. Come, secondo lei, è possibile aiutarlo a sentire la responsabilità di dare sempre il buon esempio ai giovani?
«Il calciatore professionista, il campione in quanto tale, è senza dubbio un modello di riferimento nella società e in particolare per i giovani. Tenere e fare proprio un comportamento corretto dentro e fuori dal terreno di gioco è, a mio avviso, un ulteriore arricchimento di tutto quanto di positivo un campione può rappresentare. Ecco perché è fondamentale che l’ambiente nel quale il campione vive e si forma proponga modelli virtuosi in tutti gli stadi del processo evolutivo».

Forse saprà che dopo i fatti di Genova, il Csi ha proposto di rigiocare Italia-Serbia con degli Under 14 in uno stadio pieno di bambini. Cosa ne pensa? Verrebbe a sedersi in panchina quel giorno?
«Penso che tutto quanto possa aiutare i ragazzi nel comprendere l’importanza del rifiuto della violenza, la differenza tra avversario e nemico, tra agonismo sportivo e guerra, sia importante. Se non avrò la possibilità di partecipare in prima persona a questa iniziativa, sarò comunque idealmente vicino ai ragazzi che quel giorno scenderanno in campo».

La sua vicenda personale ha evidenziato la sua grande dose di umanità. Ha saputo anteporre sempre l’uomo al professionista. Tanto da meritarsi un riconoscimento speciale dal Cardinal Tettamanzi. Si riesce ad essere “umani” anche allenando la Nazionale?
«Il rapporto umano è alla base di un ruolo di leadership in un contesto particolare come una squadra. Se non hai la capacità di ascoltare, di motivare, di rassicurare, suggerire e trasferire con autorevolezza il tuo messaggio al gruppo di uomini che sei chiamato a guidare, probabilmente hai sbagliato mestiere».

Il Csi è molto attivo nella parrocchie e negli oratori. Quale incoraggiamento “azzurro” lancia ai tanti allenatori che lavorano in quel contesto avendo a cuore l’educazione dei giovani?
«Che avvertano sempre il piacere di trasmettere ai giovani tre concetti: il rispetto delle regole, il piacere di acquisire i fondamentali del calcio attraverso il gioco, e soprattutto che ciascuno possa sempre esprimersi sul campo secondo le proprie caratteristiche psicofisiche, lasciando perdere tattiche e tatticismi esasperati che tolgono al calcio, e allo sport in genere, il piacere di praticarlo».

Ci promette un giorno di fare un salto in un oratorio Csi? Ne conosce uno in particolare?
«Sono praticamente nato in un oratorio Csi, il “Jolly” di Orzinuovi, in provincia di Brescia. Ricordi indimenticabili...».

Avendo allenato tanti giocatori, saprebbe indicare chi possa essere scelto come “capitano” da prendere come modello educativo?
«In generale il capitano è una figura fondamentale. È colui che in una squadra rappresenta in maniera naturale un vero e proprio punto di riferimento per i propri compagni. Che in campo e nello spogliatoio è unanimemente riconosciuto come leader per qualità morali, personalità, valore umano e atletico. È quello che mette sempre la propria faccia in tutte le situazioni, nella buona e nella cattiva sorte. Ed è un riferimento imprescindibile anche per l’allenatore. Personalmente mi ritengo fortunato: da calciatore ho avuto un grande capitano come Gaetano Scirea, in Nazionale ho gente del calibro di Pirlo, De Rossi e Zambrotta, per non parlare di Gigi Buffon che attendiamo a braccia aperte».

venerdì 8 ottobre 2010

Zero crisi, il pallone resta d'oro

Non c’è crisi che tenga, il pallone continua a gonfiarsi. A suon di milioni di euro iniettati nelle casse dei club, che poi ne versano buona parte (più del 60%) nelle tasche dei loro strapagati campioni. Un circolo vizioso, dal punto di vista etico. Ma assolutamente virtuoso sotto il profilo economico.


Il fatturato della Serie A cresce infatti senza sosta: nel 2008-2009 è aumentato di 73 milioni di euro rispetto alla stagione precedente, arrivando a 1498 milioni. Quest’anno le cose dovrebbero andare ancora meglio, perché con gli 860 milioni ricavati dalla vendita collettiva dei diritti tv la quota dei 1500 milioni verrà abbondantemente superata. Grazie a questa novità guadagnano tutti, grandi e piccole. Inter e Milan incasseranno 4,5 milioni in più, la Juve addirittura 10 e la Roma 11. Ma il beneficio si farà sentire soprattutto per la fascia media: 17 milioni in più per la Sampdoria, 14 per il Napoli, 11 e mezzo per il Bari, 10 e mezzo per Genoa e Lazio.

Non c’è quindi da stupirsi troppo se i calciatori continuano a battere cassa, opponendosi al volere della Lega Calcio che vorrebbe imporre contratti legati in buona parte al rendimento. Il calcio va alla grande in tutta Europa: oltre alla Serie A, anche le altre quattro "top league" hanno incrementato il giro d’affari. Secondo gli ultimi dati della Deloitte, la regina resta la Premier League inglese con un incremento del 3%, in parte annacquato dalla svalutazione della sterlina rispetto all’euro: 2326 milioni contro i 2441 dell’anno prima. Al secondo posto la tedesca Bundesliga con 1575 milioni (+10%), al terzo la Liga spagnola con 1501 (+4%). Persino la Ligue francese, al quinto posto dopo la Serie A, continua a contare denari: nel 2008-2009 ha sfondato il milione di euro per la prima volta. 

A gonfiare il pallone ci pensano anche gli sponsor: nelle casse dei club italiani entrano almeno 58 milioni di euro, considerando solo i contratti pubblicitari principali. Le cinque società che incassano di più dallo sponsor principale (Juve, Milan, Inter, Roma e Napoli), hanno visto nell’ultima stagione un incremento medio dei ricavi del 3,6%. Un dato che bilancia la parziale perdita di appeal degli altri 15 club, che hanno perso mediamente il 12,4%. Nel complesso, la Serie A "tiene", cedendo solo il 2,8% rispetto alla stagione 2008/2009. Il dato è solo in apparenza negativo, visto che gli investimenti degli sponsor sul mercato italiano sono calati del 10,4%.  In Europa la Serie A è terza con 3,5 milioni di media per squadra. Il campionato più attraente per i marchi commerciali è la Bundesliga, con una media per club di 6,3 milioni di euro (+ 5% rispetto alla stagione precedente).

La vera miniera d’oro però è la Champions League: da quando c’è la nuova formula, l’Uefa ha elargito milioni a pioggia. Secondo l’analisi di Stage Up, dal 2003 a oggi la squadra che ha incassato più denaro è il Manchester United: 216,6 milioni di euro. Grazie alla vittoria del maggio scorso, l’Inter occupa il quarto posto con 174 milioni, il Milan è nono con 154 milioni raggranellati in sei partecipazioni. Quest’anno il piatto sarà più ricco che mai: l’Uefa sgancerà ai club un totale di 758,6 milioni, circa 10 in più della stagione scorsa. Chi partecipa ai gruppi eliminatori intasca 3,9 milioni a prescindere dalla qualificazione, poi 800 mila per ogni vittoria e 400 mila per il pareggio. Più si vince più si incassa: 3 milioni per chi arriva agli ottavi, 3,3 per i quarti e 4,2 per la semifinale, fino ai 9 milioni per chi vince la Coppa. Senza contare il marketing e gli incassi del botteghino. È questo il vero Pallone d’Oro.

lunedì 27 settembre 2010

FAQ (risposte alle domande più frequenti) sulla Tessera del Tifoso, la nuova carta al servizio dei veri tifosi


Breve riepilogo di cos’è e cosa c’è da sapere sulla tessera del tifoso che sarà obbligatoria da questo campionato di calcio, per acquistare l’ abbonamento alla propria squadra del cuore di Serie A, B e Lega Pro e andare in trasferta nel settore ospiti di ogni stadio.
  • Cos’è la Tessera del Tifoso
    La Tessera del tifoso è un nuovo strumento di “fidelizzazione” adottato dalla società di calcio.
    Il progetto pone l’obiettivo di creare la categoria dei “tifosi ufficiali” che diventano i veri protagonisti dell’evento sportivo.
    Tutti i dati personali comunicati dai tifosi sono conservati solo dalle società sportive e utilizzati (nel rispetto della legge sulla privacy) per promuovere servizi e vantaggi per tutti i tifosi di calcio che vanno allo stadio.
    E’ valida in tutti gli stadi senza distinzione tra i vari campionati nazionali.
    La tessera è rilasciata, su richiesta, dalla società sportiva dopo il ‘nulla osta’ della Questura competente.