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giovedì 30 dicembre 2010

Etiopia, un calcio alla cecità Viaggio nella scuola per ciechi

Il livello non è quello del Mondiale per Club e neppure quello della Champions League, ma i calci che tirano ad Azezo non hanno meno forza degli altri. Come i sorrisi stampati sulla faccia dei ragazzi impegnati nelle partite del fine settimana. La (sostanziale) differenza è che questi calciatori non vedono né i palloni, né i sorrisi: dato che ci troviamo nella scuola per ciechi Saint Raphael a un pugno di chilometri da Gondar, antica capitale dell’Etiopia, fra campi falciati a mano (per la precisione in ginocchio, le trebbiatrici sono quasi sconosciute da queste parti) e ragazzini che imparano prima a fare i pastori che a camminare.
Essere "diversi" in un Paese in via di sviluppo (un tempo si usava questo eufemismo) è ancora più duro che essere disabili in Occidente. Essere ciechi in Etiopia è come essere orfani e l’accattonaggio è la prospettiva più reale per pensare di mangiare alla fine di ogni giorno, grazie a qualche elemosina. Per i 71 allievi (una trentina sono le ragazze) della scuola St. Raphael, invece, il presente è molto differente: in fondo al tunnel di buio, c’è una luce, magari da prendere calci. "Il nostro avversario più tosto - confidano i calciatori non vedenti - è sempre il pallone. Quando rotola lo possiamo sentire per via dei campanelli che si porta dentro, ma quando si ferma è difficile da trovare...". A guardarli correre su e giù per il campo sconnesso fatichi a immaginare che questi ragazzi siano ciechi. Guardando meglio ogni tanto vedi due braccia protese che si alzano a cercare il contatto con il compagno o l’avversario, ma in questo caso l’arbitro non fischia mai rigore. "Si gioca almeno un paio di volte la settimana - racconta suor Haregheweini Kiflemariam, che tutti abbreviano in Haregu, un’eritrea responsabile della scuola -. Durante la settimana i ragazzi vanno a scuola (molti in quelle pubbliche), noi li aiutiamo a stare al passo con gli studi, accompagnandoli dall’asilo all’Università. E un domani, magari torneranno qui per insegnare". "La cecità qui - spiega Antonio Di Pasquale, presidente di una delle Ong che aiuta la scuola - è purtroppo un fenomeno molto diffuso. Il tracoma (un’infezione che fa piegare le ciglia verso l’interno, ndr), poca educazione sanitaria, pochissima igiene: capita così che la famiglia, quando si trova un bambino cieco in casa, lo abbandona. Finge che sia orfano. La strada diventa il domicilio più probabile".
Per questi "fortunati" della St. Raphael ci sono libri in braille e perfino lezioni di piano. "La musica - continua Di Pasquale - ce l’hanno dentro: spesso, la sera prima di andare a letto, si trovano a ballare e suonare. Qui sono seguiti tutti i giorni per 9 mesi l’anno (per le vacanze, chi li ha va dai parenti), quasi tutti sono in un progetto di adozione a distanza che costa 16 euro al mese. Le suore di Sant’Anna sono molto attente ad insegnare ai ragazzi che l’aiuto dall’estero è molto gradito, ma non si deve contare su una vita di sussistenza". Come tutti i giorni la notte cala improvvisa dalle parti dell’Equatore, gli studenti della scuola sono già a cena, prima dell’appuntamento musicale, dove sono "invitate" anche suore e insegnanti. All’alba si riparte e i ragazzi ciechi di Azezo sono un tenero e fortissimo ricordo.
Un ricordo che diventa speranza guardando la faccia di suor Haregu. E’ difficile non essere retorici, vedendo quello che fanno tanti preti e monache tutti giorni, per la gente comune. Bernardo Coccia, ad esempio, un padre cappuccino che ad Addis Abeba manda avanti una struttura scolastica dall’asilo alla secondaria e 5000 adozioni a distanza, oltre a vari laboratori che mirano a creare un domani piccoli imprenditori etiopi "con la stessa scaltrezza che usano i cinesi, che in questo Paese stanno investendo e costruendo". Una vita dedicata agli altri, combattendo miseria, corruzione, disinteresse e anche i turisti occidentali che si mettono a posto la coscienza, regalando un po’ di euro come caramelle a questi ragazzi, quando li trovano per strada. Il loro lavoro quotidiano (e muto) e il sorriso dei calciatori di Azezo, insieme, fanno sembrare l’anno che verrà molto più bello.

martedì 5 ottobre 2010

Ulivieri, il mister che fa correre i preti

Per fare l’allenatore di calcio, specie in Italia, ci vogliono spalle larghe, carisma e passione da vendere. Quando poi, a quasi 70 anni, si decide di diventare «direttore tecnico» della Nir (Nazionale italiana religiosi) allora occorre anche un po’ di «vocazione». E quella a Renzo Ulivieri, il «Renzaccio», non è mai venuta meno. 

Così quando quattro anni fa Padre Leonardo Biancalani e i religiosi calciofili sparsi per le parrocchie e i conventi d’Italia, gli hanno chiesto di diventare il ct della loro Nazionale, Ulivieri non ci ha pensato su tanto e ha accettato. Debutto della Nir nel 2006 su un campo molto particolare: il carcere di Rebibbia. «Non mi ricordo se si vinse o meno, forse perdemmo, perché noi siamo una squadra di cuore e spesso porgiamo anche l’altra gamba, ma ho bene in mente una scena che mi toccò. Quel giorno fra Enzo, uno dei miei giocatori, nel terzo raggio di Rebibbia ritrovò un suo compagno d’infanzia e si abbracciarono. Ci siamo commossi tutti. E allora pensai, forse anche a un pallone riescono dei piccoli miracoli...». 

Faccia d’attore, buona per la commedia all’italiana di Monicelli, il «mister», come lo chiamano tutti, ha il cuore tenero, «ma sul campo – avverte – non voglio noie, si corre e si suda. Punto». Così una volta al mese scatta il ritiro «calcistico spirituale» per questa specialissima nazionale che da bertinottiano considera una «rifondazione religiosa attraverso il calcio». 

«Ragazzi correre, far circolare la palla, siete preti e frati mica calciatori. E ricordatevelo sempre, Maradona non abita qui...». Eccolo che viene allo scoperto il «maledetto» toscanaccio malapartiano, il comunista, il «mangiapreti». «Potevano aver pensato giusto su quasi tutto, ma io mangiapreti mai stato. Come tanti della mia generazione venuta su nel dopoguerra, sono cresciuto frequentando sia la Casa del popolo che la parrocchia. Alla prima devo la mia formazione umana e ideologica; quella spirituale e soprattutto culturale, mi deriva dalla frequentazione di don Giuseppe. È grazie a quel gran prete che ho imparato a leggere e scrivere, ad amare il latino, ad appassionarmi ai libri di Giorgio La Pira e don Lorenzo Milani. Lettera a una professoressa è il testo base che mi ha guidato in tutto il mio lungo percorso professionale». 

Un cammino, quello del «mister» cominciato alla vigilia dei moti sessantottini nella squadra del suo paese, a San Miniato, e proseguito ininterrottamente per quarant’anni, attraversando tutta l’Italia, allenando da nord a sud, da Vicenza a Reggio Calabria, alla guida di 20 squadre diverse. Ultima panchina, quella della Reggina, stagione 2007-2008. Da poco ha riposto nell’armadio l’amuleto, il suo vecchio e consumato cappotto blu «quattro stagioni», con il quale si presentava regolarmente in campo. «Una volta a Ravenna l’ho indossato alla fine di giugno, testimone il cardinale Ersilio Tonini che sedeva accanto a me e mi guardava stupito... Guarda caso mi avevano squalificato anche quella domenica. Comunque nessuna superstizione, quel cappotto era solo un gioco». Anche questa avventura con la Nazionale religiosi è solo un gioco, ma forse anche un modo per stare più vicino a gente che parla con Dio tutti i giorni. 

«Prima di ogni partita mister Ulivieri ci dice sempre: “Su ragazzi, una preghiera non fa mai male”. E così a centrocampo, mano nella mano, si recita insieme il Padre nostro», racconta padre Leonardo che – appesi gli scarpini al chiodo (infortunio alla spalla) – è diventato il presidente onorario della Nir. «La fede è una cosa seria e non si può mica confondere con una partita di pallone. Solo all’inizio della carriera mi capitò di chiedere a un prete se veniva a benedire la squadra con la motivazione: da settimane non c’è verso di fare gol. E il padre indignato mi rispose: “Renzo vergognati, tu pensi che il Signore debba scomodarsi per queste bischerate?”... Aveva ragione». Saggezza dell’uomo che i suoi colleghi hanno scelto come capo dell’Assoallenatori. 

«Mi hanno liberato dalla tv, alla domenica il calcio ormai lo vedevo solo lì. Oggi invece grazie a questo incarico posso andare a seguire le partite allo stadio senza che nessuno possa dire: “È venuto a gufare per prendersi la panchina che salta”». Storie di cuoio vecchie e lontane, come le discussioni con Roberto Baggio ai tempi del Bologna, «finì che se ne andò, ma finché è rimasto parlavamo anche di buddhismo». Beghe di spogliatoio, come il litigio furibondo con Antonio Cassano, in un Samp-Reggina, ma poi la mano sempre tesa, pronta per il perdono. «Antonio quando ci siamo ritrovati mi disse: “Mister adesso che abbiamo fatto pace, facciamo un’altra bella cosa, quella multa che ci hanno data raddoppiamola e il ricavato lo doniamo alla famiglia di Adriano Lombardi (calciatore morto di Sla)... Sono i ragazzi come Cassano, quelli più difficili, che mi hanno stimolato di più a fare questo mestiere. In fondo penso che da quella panchina ho sempre cercato di portare dalla mia parte il “figliol prodigo”». 

Nel mezzo del suo cammino però, ha incontrato anche tanti buoni samaritani, anime candide alla Damiano Tommasi. «Su tutti faccio due nomi: Lorenzo Minotti che è anche il padrino della mia bambina Valentina e Demetrio Albertini, vicepresidente della Federcalcio». Menti passate dall’università del calcio di Coverciano, dove Ulivieri presiede ai corsi che ogni anno diplomano i nuovi tecnici italiani. «Una scuola di alto livello in cui si cerca di insegnare che il “tecnico vero” è un punto di riferimento e un educatore che deve avere il carisma del capo senza però apparire tale. I calciatori devono riconoscerlo prima di tutto come una persona per bene». 

Una figura in continua evoluzione quella dell’allenatore, ma per Ulivieri è fondamentalmente ancora quella che si leggeva nella dicitura del vecchio patentino: «maestro di vita». «Un ragazzo che gioca a calcio tra allenamenti e partite trascorre almeno 6-8 ore alla settimana con il suo allenatore, il quale corre il rischio di essere pure ascoltato. E se questo accade, vuol dire che ha fatto un lavoro superiore e sostitutivo spesso a quello della famiglia, perché il problema è che questi ragazzi in casa non parlano più. Il calcio dunque diventa uno strumento di comunicazione, aiuta a stare in gruppo, a non sentirsi emarginati e inoltre funziona da grande strumento terapeutico». 

Da tempo infatti Ulivieri segue i ragazzi di un’altra squadra speciale quanto la Nir, la Matrix di Firenze, formazione composta da ragazzi e adulti con disabilità fisiche e psichiche. Il calcio non è una fede, ma è comunque un credo universale che ha i suoi comandamenti e in cima; Renzaccio, da ex «smoccolatore», mette il divieto di bestemmia in campo. «È un fenomeno di cattiva educazione, ma le squalifiche severe dell’ultimo anno sono servite a diminuire i casi di bestemmiatori su tutti i campi». 

La riconquista di un senso civico può ripartire a anche dal rispetto delle regole di un gioco. «Ai giovani dico sempre che potremo vivere in un un mondo diverso e migliore di questo, solo se tutti ci si impegniamo a fare la nostra parte. La mia paura è che le nuove generazioni siano state abbandonate al loro destino e si stanno assopendo. Per risvegliarli occorre spiegargli che è molto più vantaggioso darsi agli altri, piuttosto che chiudersi nel proprio egoismo. Spegniamo la televisione, torniamo a parlare con i nostri figli e facciamogli capire che il bene più prezioso che esista è la felicità. E questa, deve spettare a tutti». Nessuna pretattica, sono i pensieri che arrivano dall’anima del mister che assicura: non ha nessuna intenzione di rubare il mestiere ai giocatori della Nir. «Su un pulpito sarei in fuorigioco. Io farò l’allenatore anche nell’aldilà. Mi sono informato e mi hanno assicurato che giocano a calcio pure lassù, dove ho tanti amici... A me basta un fischietto per gli allenamenti e una panchina da cui urlare per 90 minuti».