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martedì 28 dicembre 2010

Il gol della vita, dai campi profughi ai campi di calcio

C'è un altro pallone, di cui non si parla mai. Partite che si disputano sui campi di periferia, dove in 90 minuti ci si gioca un pezzo di libertà conquistata a fatica, pagando sempre un prezzo altissimo, l’abbandono del proprio Paese. È il destino comune dei calciatori di un’intera squadra, la Liberi Nantes, composta da ragazzi di origine eritrea, somala, afgana, etiope, irachena, nigeriana, sudanese. Tutti marchiati dal sigillo della migrazione forzata per sfuggire alla follia della guerra e alle violenze. Una formazione di poeti del gol già nel nome, tratto da un verso del Libro I dell’Eneide di Virgilio. «Le navi degli esuli troiani in fuga dalla loro città in fiamme, fanno naufragio e solo pochi tra loro - "rari nantes" - immersi nel grande mare - "in gurgite vasto" - riescono a raggiungere la riva».


Almeno 350 Enea in fuga, «rifugiati politici», sbarcati sulle coste italiane, stipati in vascelli di fortuna o legati sotto ai camion, racconta il presidente della Liberi Nantes, Gianluca Di Girolami. È stata sua l’intuizione di mettere in piedi questa formazione, unica, un club più multietnico dell’Inter, gestito con innumerevoli sacrifici e con l’appoggio di un gruppo di amici, volontari, che hanno deciso di ridare un minimo di normalità alle esistenze di ragazzi in fuga. «Tre anni fa siamo andati a cercarli nei centri di accoglienza, alla Caritas, invitandoli a venire al campo di Pietralata. La loro casa era così diventata lo stadio "25 Aprile", il campo della mitica Alba Rossa, la formazione della Casa del Popolo». Un fischio d’inizio difficile, precario quanto il quotidiano di questi giovani braccati da un passato che ha lasciato ferite profonde. Ma un pallone ha avuto il merito di lenire un po’ il dolore, di unire lingue, culture e credo religioso, spesso in conflitto tra di loro, sotto un’unica maglia blu: il colore delle Nazione Unite. È il colore della maglia della Liberi Nantes. Formazione che gioca sempre in trasferta e la maggior parte dei suoi “tesserati” non può permettersi neppure il costo del biglietto dei mezzi per muoversi da una parte all’altra della Capitale. Così Gianluca e gli altri volontari, provvedono alle spese per gli spostamenti e al rientro serale nei centri di accoglienza.



Nonostante le innumerevoli difficoltà, la squadra dalla sua fondazione è cresciuta in fretta e amalgamando una Babele in campo, nel 2009, aveva subito impressionato nel campionato di Terza categoria. «Il 9 maggio 2009, ultima giornata di campionato, rimane una data indimenticabile . Sugli spalti si erano dati appuntamento almeno 600 rifugiati, amici e tifosi dei nostri ragazzi», racconta Gianluca con un filo di commozione, ma anche tanta amarezza, perché quello che definisce «un piccolo miracolo», adesso è seriamente a rischio. Ai successi in campo, fanno da contrappasso una serie di disagi che mettono a repentaglio il domani della Liberi Nantes. «Il problema più grave è il campo, quello che ci avevano assegnato è inagibile. E i fondi stanziati, 700mila euro, per le solite grane della burocrazia forse non li vedremo mai. Così, non avendo uno spazio per allenarci, molti dei ragazzi non ci seguono più. La rosa da 25 elementi si è ridotta a 7-8 e ogni domenica siamo costretti ad integrarla giocando alcuni di noi. E noi volontari non è che ce la passiamo meglio, quasi tutti i soci fondatori sono disoccupati». A 41 anni, nonostante una laurea in Lettere, anche Gianluca è rimasto senza lavoro, ma non ha nessuna intenzione di mollare. Continua a fare le convocazioni settimanali e ad appellarsi allo zoccolo duro dei fedelissimi. «Siamo diventati un’armata Brancaleone, ma vorremmo continuare a resistere per esistere e dare assistenza a questi ragazzi». Così Gianluca e gli altri, continuano ad affittare, a loro spese, i campi di calcio dei quartieri romani. «Ci vogliono 100 euro per ogni partita e quando non ci sono neppure quelli è notte fonda. Qualcuno ancora ci dà una mano e dobbiamo ringraziare Scilla Berardi, la presidentessa de “Le Fornaci” e l’ospitalità che la direttrice Mattia Morena ci ha concesso al centro sportivo “Fulvio Bernardini” di Pietralata. Però vorremmo cavarcela da soli». Due campagne di solidarietà sono già in corso. La prima l’hanno intitolata “Vecchio scarpino”. «In questi anni abbiamo acquistato almeno 100 paia di scarpe da calcio, ma dopo cinque mesi sono ridotte da buttare e così non bastano mai». L’altra campagna si richiama al principio originario della Liberi Nantes, “1 metro quadro di libertà”. «Un campo è composto di 6mila metri quadri circa, quindi con 100 euro di donazione per ogni metro si arriverebbe a 600mila euro e con quella cifra il nostro progetto avrebbe ancora avere un futuro». Grandi difficoltà ma anche la speranza che non si arrende «Ho incontrato Pepè – conclude il presidente – un nostro ragazzo della Costa d’Avorio, ed era felice come un bambino. Mi ha detto: “Sai Gianluca, ieri sera dopo la partita, Abdul, l’afgano, mi ha detto che se non sapevo dove andare a dormire poteva ospitarmi a casa sua. E ho dormito lì”. Un cristiano ospite in casa di un musulmano, solo per il fatto di essere compagni di squadra della Liberi Nantes… Finché accadranno ancora questi piccoli miracoli, noi ci saremo»

martedì 5 ottobre 2010

Ulivieri, il mister che fa correre i preti

Per fare l’allenatore di calcio, specie in Italia, ci vogliono spalle larghe, carisma e passione da vendere. Quando poi, a quasi 70 anni, si decide di diventare «direttore tecnico» della Nir (Nazionale italiana religiosi) allora occorre anche un po’ di «vocazione». E quella a Renzo Ulivieri, il «Renzaccio», non è mai venuta meno. 

Così quando quattro anni fa Padre Leonardo Biancalani e i religiosi calciofili sparsi per le parrocchie e i conventi d’Italia, gli hanno chiesto di diventare il ct della loro Nazionale, Ulivieri non ci ha pensato su tanto e ha accettato. Debutto della Nir nel 2006 su un campo molto particolare: il carcere di Rebibbia. «Non mi ricordo se si vinse o meno, forse perdemmo, perché noi siamo una squadra di cuore e spesso porgiamo anche l’altra gamba, ma ho bene in mente una scena che mi toccò. Quel giorno fra Enzo, uno dei miei giocatori, nel terzo raggio di Rebibbia ritrovò un suo compagno d’infanzia e si abbracciarono. Ci siamo commossi tutti. E allora pensai, forse anche a un pallone riescono dei piccoli miracoli...». 

Faccia d’attore, buona per la commedia all’italiana di Monicelli, il «mister», come lo chiamano tutti, ha il cuore tenero, «ma sul campo – avverte – non voglio noie, si corre e si suda. Punto». Così una volta al mese scatta il ritiro «calcistico spirituale» per questa specialissima nazionale che da bertinottiano considera una «rifondazione religiosa attraverso il calcio». 

«Ragazzi correre, far circolare la palla, siete preti e frati mica calciatori. E ricordatevelo sempre, Maradona non abita qui...». Eccolo che viene allo scoperto il «maledetto» toscanaccio malapartiano, il comunista, il «mangiapreti». «Potevano aver pensato giusto su quasi tutto, ma io mangiapreti mai stato. Come tanti della mia generazione venuta su nel dopoguerra, sono cresciuto frequentando sia la Casa del popolo che la parrocchia. Alla prima devo la mia formazione umana e ideologica; quella spirituale e soprattutto culturale, mi deriva dalla frequentazione di don Giuseppe. È grazie a quel gran prete che ho imparato a leggere e scrivere, ad amare il latino, ad appassionarmi ai libri di Giorgio La Pira e don Lorenzo Milani. Lettera a una professoressa è il testo base che mi ha guidato in tutto il mio lungo percorso professionale». 

Un cammino, quello del «mister» cominciato alla vigilia dei moti sessantottini nella squadra del suo paese, a San Miniato, e proseguito ininterrottamente per quarant’anni, attraversando tutta l’Italia, allenando da nord a sud, da Vicenza a Reggio Calabria, alla guida di 20 squadre diverse. Ultima panchina, quella della Reggina, stagione 2007-2008. Da poco ha riposto nell’armadio l’amuleto, il suo vecchio e consumato cappotto blu «quattro stagioni», con il quale si presentava regolarmente in campo. «Una volta a Ravenna l’ho indossato alla fine di giugno, testimone il cardinale Ersilio Tonini che sedeva accanto a me e mi guardava stupito... Guarda caso mi avevano squalificato anche quella domenica. Comunque nessuna superstizione, quel cappotto era solo un gioco». Anche questa avventura con la Nazionale religiosi è solo un gioco, ma forse anche un modo per stare più vicino a gente che parla con Dio tutti i giorni. 

«Prima di ogni partita mister Ulivieri ci dice sempre: “Su ragazzi, una preghiera non fa mai male”. E così a centrocampo, mano nella mano, si recita insieme il Padre nostro», racconta padre Leonardo che – appesi gli scarpini al chiodo (infortunio alla spalla) – è diventato il presidente onorario della Nir. «La fede è una cosa seria e non si può mica confondere con una partita di pallone. Solo all’inizio della carriera mi capitò di chiedere a un prete se veniva a benedire la squadra con la motivazione: da settimane non c’è verso di fare gol. E il padre indignato mi rispose: “Renzo vergognati, tu pensi che il Signore debba scomodarsi per queste bischerate?”... Aveva ragione». Saggezza dell’uomo che i suoi colleghi hanno scelto come capo dell’Assoallenatori. 

«Mi hanno liberato dalla tv, alla domenica il calcio ormai lo vedevo solo lì. Oggi invece grazie a questo incarico posso andare a seguire le partite allo stadio senza che nessuno possa dire: “È venuto a gufare per prendersi la panchina che salta”». Storie di cuoio vecchie e lontane, come le discussioni con Roberto Baggio ai tempi del Bologna, «finì che se ne andò, ma finché è rimasto parlavamo anche di buddhismo». Beghe di spogliatoio, come il litigio furibondo con Antonio Cassano, in un Samp-Reggina, ma poi la mano sempre tesa, pronta per il perdono. «Antonio quando ci siamo ritrovati mi disse: “Mister adesso che abbiamo fatto pace, facciamo un’altra bella cosa, quella multa che ci hanno data raddoppiamola e il ricavato lo doniamo alla famiglia di Adriano Lombardi (calciatore morto di Sla)... Sono i ragazzi come Cassano, quelli più difficili, che mi hanno stimolato di più a fare questo mestiere. In fondo penso che da quella panchina ho sempre cercato di portare dalla mia parte il “figliol prodigo”». 

Nel mezzo del suo cammino però, ha incontrato anche tanti buoni samaritani, anime candide alla Damiano Tommasi. «Su tutti faccio due nomi: Lorenzo Minotti che è anche il padrino della mia bambina Valentina e Demetrio Albertini, vicepresidente della Federcalcio». Menti passate dall’università del calcio di Coverciano, dove Ulivieri presiede ai corsi che ogni anno diplomano i nuovi tecnici italiani. «Una scuola di alto livello in cui si cerca di insegnare che il “tecnico vero” è un punto di riferimento e un educatore che deve avere il carisma del capo senza però apparire tale. I calciatori devono riconoscerlo prima di tutto come una persona per bene». 

Una figura in continua evoluzione quella dell’allenatore, ma per Ulivieri è fondamentalmente ancora quella che si leggeva nella dicitura del vecchio patentino: «maestro di vita». «Un ragazzo che gioca a calcio tra allenamenti e partite trascorre almeno 6-8 ore alla settimana con il suo allenatore, il quale corre il rischio di essere pure ascoltato. E se questo accade, vuol dire che ha fatto un lavoro superiore e sostitutivo spesso a quello della famiglia, perché il problema è che questi ragazzi in casa non parlano più. Il calcio dunque diventa uno strumento di comunicazione, aiuta a stare in gruppo, a non sentirsi emarginati e inoltre funziona da grande strumento terapeutico». 

Da tempo infatti Ulivieri segue i ragazzi di un’altra squadra speciale quanto la Nir, la Matrix di Firenze, formazione composta da ragazzi e adulti con disabilità fisiche e psichiche. Il calcio non è una fede, ma è comunque un credo universale che ha i suoi comandamenti e in cima; Renzaccio, da ex «smoccolatore», mette il divieto di bestemmia in campo. «È un fenomeno di cattiva educazione, ma le squalifiche severe dell’ultimo anno sono servite a diminuire i casi di bestemmiatori su tutti i campi». 

La riconquista di un senso civico può ripartire a anche dal rispetto delle regole di un gioco. «Ai giovani dico sempre che potremo vivere in un un mondo diverso e migliore di questo, solo se tutti ci si impegniamo a fare la nostra parte. La mia paura è che le nuove generazioni siano state abbandonate al loro destino e si stanno assopendo. Per risvegliarli occorre spiegargli che è molto più vantaggioso darsi agli altri, piuttosto che chiudersi nel proprio egoismo. Spegniamo la televisione, torniamo a parlare con i nostri figli e facciamogli capire che il bene più prezioso che esista è la felicità. E questa, deve spettare a tutti». Nessuna pretattica, sono i pensieri che arrivano dall’anima del mister che assicura: non ha nessuna intenzione di rubare il mestiere ai giocatori della Nir. «Su un pulpito sarei in fuorigioco. Io farò l’allenatore anche nell’aldilà. Mi sono informato e mi hanno assicurato che giocano a calcio pure lassù, dove ho tanti amici... A me basta un fischietto per gli allenamenti e una panchina da cui urlare per 90 minuti».