Translate

Visualizzazione post con etichetta calcio. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta calcio. Mostra tutti i post

lunedì 25 ottobre 2010

Tessera del tifoso, grande spot commerciale

Al vaglio dell'authority il trattamento dei dati personali, l’utilizzo della tecnologia inserita nel microchip, nonché la liceità dell’obbligo di acquisto di una carta prepagata per ottenere la tessera del tifoso

Finalmente qualcosa si muove. Su segnalazione di alcuni cittadini e un’associazione di consumatori, il Garante per la Privacy ha aperto un’istruttoria sulla tessera del tifoso. Entro un mese è atteso l’esito. Tre i punti particolarmente controversi: il trattamento dei dati personali, l’utilizzo della tecnologia inserita nel microchip, nonché la liceità dell’obbligo di acquisto di una carta prepagata per ottenere la tessera del tifoso.

A insospettire i tifosi era stata la modulistica di richiesta. Su cui non era chiaro a chi andassero in mano i dati personali. Ma non solo. Perché, nonostante il clamore suscitato dalla sua introduzione, in pochi ancora oggi hanno capito cosa sia la tessera del tifoso. La quale è a tutti gli effetti una carta prepagata. Che può essere utilizzata per comprare biglietti e l’abbonamento allo stadio, ma anche per acquistare qualunque altra cosa, proprio come ogni altra carta. E c’è di più: essa contiene anche un microchip di tecnologia RFID, attraverso il quale particolari macchinari sono in grado di rilevarne i dati a distanza, seppur breve. E inoltre, al contrario delle normali prepagate, contiene la foto del possessore. Tutto ciò già contrastava un primo parere espresso dal Garante per la Privacy nel giugno 2010, in cui si precisavano alcuni aspetti del trattamento dei dati personali nelle linee guida del ministero.

Ufficialmente, però, la tessera del tifoso venne introdotta per curare la piaga della violenza negli stadi. Eravamo, si badi bene alle date, a metà 2009. Già allora, come riporta l’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive, i reati da stadio erano in considerevole diminuzione: contando solo il numero di feriti, si è passati dai 1.219 della stagione 2003-2004 ai 361 di quella 2007-2008, con un’ulteriore diminuzione del 66% nel girone d’andata dello scorso anno. Ebbene, la tessera veniva spacciata come ulteriore elemento di sicurezza e prevenzione. Da una parte la squadra forniva una tessera di fedeltà al tifoso, dall’altra la Questura controllava che sul titolare non pendessero provvedimenti ostativi (un provvedimento di Daspo o una condanna passata in primo grado per reati da stadio, sentenza che di fatto sancisce una diffida a vita a frequentare qualunque stadio). Tale misura però, sebbene meno aspra, era già in vigore dal 2005, allorché le squadre furono costrette a trasmettere i dati dei propri abbonati alla Questura.

E allora che bisogno c’era della tessera del tifoso? A far diminuire la violenza? Be’, se si prendono in esame le prime giornate di questo campionato sembra proprio di no. E c’è un perché. La circolare ministeriale 555/2009 che introdusse la tessera del tifoso, infatti, si guardò bene dal renderla obbligatoria. Non solo non lo fece per le singole società, le quali avrebbero potuto benissimo non aderire all’intero progetto. Ma nemmeno per il singolo tifoso, il quale può a tutt’oggi andare al botteghino o in banca e ottenere così il suo diritto d’accesso allo stadio. Con due uniche preclusioni: l’abbonamento per l’intera stagione e i biglietti per le trasferte nel cosiddetto “settore ospiti”, ossia quella gabbia dove i tifosi in trasferta vengono assiepati come fossero mandrie.

Cosa è successo? Semplice, che chi non ha sottoscritto la tessera del tifoso (vuoi perché, è il caso di molti ultrà, la vede come una schedatura, vuoi perché, condannato per reati da stadio, non poteva farlo) è andato ugualmente in trasferta, ha comprato un biglietto per una tribuna che non fosse quella “ospiti”, e si è seduto in un settore normalmente frequentato dai tifosi di casa. Risultato: incidenti. A Brescia, due settimane fa, il più grave, con un tifoso della provincia di Ragusa finito in ospedale (in quella partita c’erano solo 26 tifosi del Palermo nella gabbia, tutti gli altri erano nelle varie tribune). Invece il 19 settembre, a Marassi, durante Sampdoria-Napoli, l’accensione di una torcia da parte dei tifosi partenopei ed il conseguente parapiglia in tribuna (la curva ospiti era semideserta) ha costretto steward e forze dell’ordine a fare cordone nel settore distinti. Mentre a Brindisi, già alla prima di campionato di Lega Pro, sette tifosi dell’Avellino che non si trovavano nel settore ospiti si sono azzuffati con quelli di casa. Per loro potrebbe scattare il Daspo. Nel caso, anche se volessero, niente prepagata.

D’altronde non ci voleva molto a capire che lo scopo della tessera del tifoso fosse eminentemente commerciale. Non a caso, dopo il lancio pubblicitario disastroso, con i gruppi ultrà che non ne volevano sapere di sottoscriverla e quelli dell’Atalanta, era il 26 agosto, che assaltavano la festa di Alzano Lombardo dove parlava il ministro dell’Interno Bobo Maroni, molte squadre sul loro sito l’hanno camuffata con nomi accattivanti, puntando tutto sulla fidelizzazione. Come è accaduto spesso in passato, il meccanismo ha fatto leva sull’amore per il calcio degli italiani, il quale, a fronte di una diminuzione delle presenze allo stadio (quest’anno in serie A mancano all’appello già 70.000 paganti), è in grande crescita, almeno stando a una recente indagine di Demos & Pi (fonte Repubblica). Detto fatto, finora sono 655mila le tessere del tifoso sottoscritte. Come dire, un ulteriore balzello per tanti appassionati (si consideri che la prepagata finisce in mano pure ai minori di 14 anni), ma anche fa un gran favore alle banche, guarda caso il soggetto che spesso emette le fideiussioni grazie alle quali le squadre ottengono l’iscrizione ai campionati.

venerdì 8 ottobre 2010

Zero crisi, il pallone resta d'oro

Non c’è crisi che tenga, il pallone continua a gonfiarsi. A suon di milioni di euro iniettati nelle casse dei club, che poi ne versano buona parte (più del 60%) nelle tasche dei loro strapagati campioni. Un circolo vizioso, dal punto di vista etico. Ma assolutamente virtuoso sotto il profilo economico.


Il fatturato della Serie A cresce infatti senza sosta: nel 2008-2009 è aumentato di 73 milioni di euro rispetto alla stagione precedente, arrivando a 1498 milioni. Quest’anno le cose dovrebbero andare ancora meglio, perché con gli 860 milioni ricavati dalla vendita collettiva dei diritti tv la quota dei 1500 milioni verrà abbondantemente superata. Grazie a questa novità guadagnano tutti, grandi e piccole. Inter e Milan incasseranno 4,5 milioni in più, la Juve addirittura 10 e la Roma 11. Ma il beneficio si farà sentire soprattutto per la fascia media: 17 milioni in più per la Sampdoria, 14 per il Napoli, 11 e mezzo per il Bari, 10 e mezzo per Genoa e Lazio.

Non c’è quindi da stupirsi troppo se i calciatori continuano a battere cassa, opponendosi al volere della Lega Calcio che vorrebbe imporre contratti legati in buona parte al rendimento. Il calcio va alla grande in tutta Europa: oltre alla Serie A, anche le altre quattro "top league" hanno incrementato il giro d’affari. Secondo gli ultimi dati della Deloitte, la regina resta la Premier League inglese con un incremento del 3%, in parte annacquato dalla svalutazione della sterlina rispetto all’euro: 2326 milioni contro i 2441 dell’anno prima. Al secondo posto la tedesca Bundesliga con 1575 milioni (+10%), al terzo la Liga spagnola con 1501 (+4%). Persino la Ligue francese, al quinto posto dopo la Serie A, continua a contare denari: nel 2008-2009 ha sfondato il milione di euro per la prima volta. 

A gonfiare il pallone ci pensano anche gli sponsor: nelle casse dei club italiani entrano almeno 58 milioni di euro, considerando solo i contratti pubblicitari principali. Le cinque società che incassano di più dallo sponsor principale (Juve, Milan, Inter, Roma e Napoli), hanno visto nell’ultima stagione un incremento medio dei ricavi del 3,6%. Un dato che bilancia la parziale perdita di appeal degli altri 15 club, che hanno perso mediamente il 12,4%. Nel complesso, la Serie A "tiene", cedendo solo il 2,8% rispetto alla stagione 2008/2009. Il dato è solo in apparenza negativo, visto che gli investimenti degli sponsor sul mercato italiano sono calati del 10,4%.  In Europa la Serie A è terza con 3,5 milioni di media per squadra. Il campionato più attraente per i marchi commerciali è la Bundesliga, con una media per club di 6,3 milioni di euro (+ 5% rispetto alla stagione precedente).

La vera miniera d’oro però è la Champions League: da quando c’è la nuova formula, l’Uefa ha elargito milioni a pioggia. Secondo l’analisi di Stage Up, dal 2003 a oggi la squadra che ha incassato più denaro è il Manchester United: 216,6 milioni di euro. Grazie alla vittoria del maggio scorso, l’Inter occupa il quarto posto con 174 milioni, il Milan è nono con 154 milioni raggranellati in sei partecipazioni. Quest’anno il piatto sarà più ricco che mai: l’Uefa sgancerà ai club un totale di 758,6 milioni, circa 10 in più della stagione scorsa. Chi partecipa ai gruppi eliminatori intasca 3,9 milioni a prescindere dalla qualificazione, poi 800 mila per ogni vittoria e 400 mila per il pareggio. Più si vince più si incassa: 3 milioni per chi arriva agli ottavi, 3,3 per i quarti e 4,2 per la semifinale, fino ai 9 milioni per chi vince la Coppa. Senza contare il marketing e gli incassi del botteghino. È questo il vero Pallone d’Oro.

martedì 5 ottobre 2010

Ulivieri, il mister che fa correre i preti

Per fare l’allenatore di calcio, specie in Italia, ci vogliono spalle larghe, carisma e passione da vendere. Quando poi, a quasi 70 anni, si decide di diventare «direttore tecnico» della Nir (Nazionale italiana religiosi) allora occorre anche un po’ di «vocazione». E quella a Renzo Ulivieri, il «Renzaccio», non è mai venuta meno. 

Così quando quattro anni fa Padre Leonardo Biancalani e i religiosi calciofili sparsi per le parrocchie e i conventi d’Italia, gli hanno chiesto di diventare il ct della loro Nazionale, Ulivieri non ci ha pensato su tanto e ha accettato. Debutto della Nir nel 2006 su un campo molto particolare: il carcere di Rebibbia. «Non mi ricordo se si vinse o meno, forse perdemmo, perché noi siamo una squadra di cuore e spesso porgiamo anche l’altra gamba, ma ho bene in mente una scena che mi toccò. Quel giorno fra Enzo, uno dei miei giocatori, nel terzo raggio di Rebibbia ritrovò un suo compagno d’infanzia e si abbracciarono. Ci siamo commossi tutti. E allora pensai, forse anche a un pallone riescono dei piccoli miracoli...». 

Faccia d’attore, buona per la commedia all’italiana di Monicelli, il «mister», come lo chiamano tutti, ha il cuore tenero, «ma sul campo – avverte – non voglio noie, si corre e si suda. Punto». Così una volta al mese scatta il ritiro «calcistico spirituale» per questa specialissima nazionale che da bertinottiano considera una «rifondazione religiosa attraverso il calcio». 

«Ragazzi correre, far circolare la palla, siete preti e frati mica calciatori. E ricordatevelo sempre, Maradona non abita qui...». Eccolo che viene allo scoperto il «maledetto» toscanaccio malapartiano, il comunista, il «mangiapreti». «Potevano aver pensato giusto su quasi tutto, ma io mangiapreti mai stato. Come tanti della mia generazione venuta su nel dopoguerra, sono cresciuto frequentando sia la Casa del popolo che la parrocchia. Alla prima devo la mia formazione umana e ideologica; quella spirituale e soprattutto culturale, mi deriva dalla frequentazione di don Giuseppe. È grazie a quel gran prete che ho imparato a leggere e scrivere, ad amare il latino, ad appassionarmi ai libri di Giorgio La Pira e don Lorenzo Milani. Lettera a una professoressa è il testo base che mi ha guidato in tutto il mio lungo percorso professionale». 

Un cammino, quello del «mister» cominciato alla vigilia dei moti sessantottini nella squadra del suo paese, a San Miniato, e proseguito ininterrottamente per quarant’anni, attraversando tutta l’Italia, allenando da nord a sud, da Vicenza a Reggio Calabria, alla guida di 20 squadre diverse. Ultima panchina, quella della Reggina, stagione 2007-2008. Da poco ha riposto nell’armadio l’amuleto, il suo vecchio e consumato cappotto blu «quattro stagioni», con il quale si presentava regolarmente in campo. «Una volta a Ravenna l’ho indossato alla fine di giugno, testimone il cardinale Ersilio Tonini che sedeva accanto a me e mi guardava stupito... Guarda caso mi avevano squalificato anche quella domenica. Comunque nessuna superstizione, quel cappotto era solo un gioco». Anche questa avventura con la Nazionale religiosi è solo un gioco, ma forse anche un modo per stare più vicino a gente che parla con Dio tutti i giorni. 

«Prima di ogni partita mister Ulivieri ci dice sempre: “Su ragazzi, una preghiera non fa mai male”. E così a centrocampo, mano nella mano, si recita insieme il Padre nostro», racconta padre Leonardo che – appesi gli scarpini al chiodo (infortunio alla spalla) – è diventato il presidente onorario della Nir. «La fede è una cosa seria e non si può mica confondere con una partita di pallone. Solo all’inizio della carriera mi capitò di chiedere a un prete se veniva a benedire la squadra con la motivazione: da settimane non c’è verso di fare gol. E il padre indignato mi rispose: “Renzo vergognati, tu pensi che il Signore debba scomodarsi per queste bischerate?”... Aveva ragione». Saggezza dell’uomo che i suoi colleghi hanno scelto come capo dell’Assoallenatori. 

«Mi hanno liberato dalla tv, alla domenica il calcio ormai lo vedevo solo lì. Oggi invece grazie a questo incarico posso andare a seguire le partite allo stadio senza che nessuno possa dire: “È venuto a gufare per prendersi la panchina che salta”». Storie di cuoio vecchie e lontane, come le discussioni con Roberto Baggio ai tempi del Bologna, «finì che se ne andò, ma finché è rimasto parlavamo anche di buddhismo». Beghe di spogliatoio, come il litigio furibondo con Antonio Cassano, in un Samp-Reggina, ma poi la mano sempre tesa, pronta per il perdono. «Antonio quando ci siamo ritrovati mi disse: “Mister adesso che abbiamo fatto pace, facciamo un’altra bella cosa, quella multa che ci hanno data raddoppiamola e il ricavato lo doniamo alla famiglia di Adriano Lombardi (calciatore morto di Sla)... Sono i ragazzi come Cassano, quelli più difficili, che mi hanno stimolato di più a fare questo mestiere. In fondo penso che da quella panchina ho sempre cercato di portare dalla mia parte il “figliol prodigo”». 

Nel mezzo del suo cammino però, ha incontrato anche tanti buoni samaritani, anime candide alla Damiano Tommasi. «Su tutti faccio due nomi: Lorenzo Minotti che è anche il padrino della mia bambina Valentina e Demetrio Albertini, vicepresidente della Federcalcio». Menti passate dall’università del calcio di Coverciano, dove Ulivieri presiede ai corsi che ogni anno diplomano i nuovi tecnici italiani. «Una scuola di alto livello in cui si cerca di insegnare che il “tecnico vero” è un punto di riferimento e un educatore che deve avere il carisma del capo senza però apparire tale. I calciatori devono riconoscerlo prima di tutto come una persona per bene». 

Una figura in continua evoluzione quella dell’allenatore, ma per Ulivieri è fondamentalmente ancora quella che si leggeva nella dicitura del vecchio patentino: «maestro di vita». «Un ragazzo che gioca a calcio tra allenamenti e partite trascorre almeno 6-8 ore alla settimana con il suo allenatore, il quale corre il rischio di essere pure ascoltato. E se questo accade, vuol dire che ha fatto un lavoro superiore e sostitutivo spesso a quello della famiglia, perché il problema è che questi ragazzi in casa non parlano più. Il calcio dunque diventa uno strumento di comunicazione, aiuta a stare in gruppo, a non sentirsi emarginati e inoltre funziona da grande strumento terapeutico». 

Da tempo infatti Ulivieri segue i ragazzi di un’altra squadra speciale quanto la Nir, la Matrix di Firenze, formazione composta da ragazzi e adulti con disabilità fisiche e psichiche. Il calcio non è una fede, ma è comunque un credo universale che ha i suoi comandamenti e in cima; Renzaccio, da ex «smoccolatore», mette il divieto di bestemmia in campo. «È un fenomeno di cattiva educazione, ma le squalifiche severe dell’ultimo anno sono servite a diminuire i casi di bestemmiatori su tutti i campi». 

La riconquista di un senso civico può ripartire a anche dal rispetto delle regole di un gioco. «Ai giovani dico sempre che potremo vivere in un un mondo diverso e migliore di questo, solo se tutti ci si impegniamo a fare la nostra parte. La mia paura è che le nuove generazioni siano state abbandonate al loro destino e si stanno assopendo. Per risvegliarli occorre spiegargli che è molto più vantaggioso darsi agli altri, piuttosto che chiudersi nel proprio egoismo. Spegniamo la televisione, torniamo a parlare con i nostri figli e facciamogli capire che il bene più prezioso che esista è la felicità. E questa, deve spettare a tutti». Nessuna pretattica, sono i pensieri che arrivano dall’anima del mister che assicura: non ha nessuna intenzione di rubare il mestiere ai giocatori della Nir. «Su un pulpito sarei in fuorigioco. Io farò l’allenatore anche nell’aldilà. Mi sono informato e mi hanno assicurato che giocano a calcio pure lassù, dove ho tanti amici... A me basta un fischietto per gli allenamenti e una panchina da cui urlare per 90 minuti».

domenica 3 ottobre 2010

Mourinho “normal one”

Il vero Josè Mourinho si è “confessato” a Fogli, l’inserto di “Studi Cattolici” e per gentile concessione pubblichiamo questa intervista. Un Mourinho molto umile e pacato.

Il vero “Special One” fa il modesto dopo i tre “tituli” - Coppa Italia, Scudetto e Champions League - del Grande Slam interista?«Non sono modesto, sono credente».

Credente o superstizioso?«Qualcuno mi aveva visto stringere un crocifisso durante una partita. Almeno una volta all’anno vado in pellegrinaggio a Fatima. Il crocifisso che porto con me è un regalo di mia moglie».

A proposito di crocifisso, che cos’era successo con il Sindaco di Reggio Calabria?«Mi aveva accusato di avere dato una moneta a un bambino disabile per umiliarlo. Invece a quel bambino avevo donato il mio crocifisso. Mia moglie l’aveva comprato a Fatima e lo tenevo in tasca da tre-quattro anni».

Riesce a essere criticato anche quando fa un gesto affettuoso.«Si vede che sono sfortunato...».

Come sconfigge la sfortuna?«Con la preghiera».

Prega molto?«Sono cresciuto in una famiglia religiosa».

Chi Le ha insegnato a pregare?«Mia madre. E ricordo ancora certe preghiere che mi faceva dire la sera».

Ha un santo di riferimento?

«La Madonna di Fatima».

Con chi è andato la prima volta al Santuario di Fatima?«Con mia madre. E da allora il 13 maggio è una ricorrenza molto importante per me e per la mia famiglia».

Sua madre la portava a Fatima mentre Suo padre Félix, ex portiere portoghese, sui campi di calcio.«Mio padre viveva per il calcio. Io gli devo tutto».

Oltre agli schemi tattici in campo le ha dato dei suggerimenti anche per la vita?«Onestà e lealtà verso il prossimo».

Che valori ha trasmesso ai suoi figli?«Gli stessi».

Compreso l’insegnamento cattolico?«Se n’è occupata soprattutto mia moglie».

Un papà forse un po’ assente?«Quando posso, vado a prendere i miei figli a scuola e sto con loro. Mi ripaga delle volte che manco, per lavoro, alle feste importanti come i loro compleanni».

Sua moglie la segue sempre?«Una vera famiglia deve essere unita. Ovunque».

Com’è Mourinho in famiglia?«Normale. È una famiglia fantastica la mia. Siamo molto felici. Mia moglie e i miei figli sono molto importanti nella mia vita».

Sua moglie non compare nelle foto dei giornali.«Non ama la mondanità, le piace stare tranquilla. Ha rinunciato alla sua carriera per starmi vicino».

Quando torna a casa dopo le partite parla di calcio?«Che vinca o perda, è impossibile che sia una persona diversa quando torno a casa».

Chi è il mister in casa Mourinho?«Mia moglie. Lei è fondamentale nella mia vita. I miei figli Matilde jr e José jr dicono, scherzando, che a casa non ho autorità. Matilde è il miglior allenatore del mondo. Mia moglie e i miei figli hanno la priorità su tutto. Non ci sono ambizioni che reggano».

È attaccato alla sua terra?«Setùbal è il posto dove ritrovo le mie radici».

E ogni estate vi torna per insegnare calcio ai bambini poveri.«Ho ricevuto tanto dalla vita e voglio regalare qualcosa a chi è meno fortunato».

Chi l’ha deciso?
«Matilde e io. Ma prima lei. Sono bambini sfortunati che noi siamo felici di aiutare».

A chi chiede aiuto quando una partita si mette male?«In campo bastano i giocatori».

Ma lei è “The Special One”.
«Non voglio peccare di superbia».

Lo fa ogni volta che dice di essere il miglior allenatore del mondo.«Ma è la verità».

Com’è un allenatore cattolico nei ritiri e in campo?«Serio. Nel lavoro e nella vita. A volte l’esclusione dalla formazione serve come insegnamento».

Quale insegnamento?
«Che la vita è una faccenda seria. E va affrontata seriamente».

Per la serie: “Dio perdona, Mourinho no”?«Solo dopo il ravvedimento».

Il Suo secondo nome è Mario, proprio come qualcuno che dovrebbe ravvedersi (leggasi Balotelli)?
«Io non faccio nomi».

Ci pensano i giornali.«I giornali non sono la Bibbia».

Dalla Bibbia al Corano, che cos’era successo con Muntari?«Niente di speciale».

L’aveva sostituito perché digiunava durante il Ramadan e in campo non rendeva.«Quando un giocatore non è in forma viene sostituito. Senza problemi».

Ha avuto problemi come allenatore cattolico in Inghilterra?«Ci mancherebbe. Non ascolto le critiche sul mio lavoro, figurarsi sul mio credo religioso».

Ha chiesto aiuto alla fede nei momenti difficili?«Non solo in quelli difficili. E non mi ha mai deluso.

Sono invece molto delusi i tifosi interisti per come si è comportato andando via. «Ho fatto quello che si aspettavano da me: vincere».

Adesso c’è la panchina del Real Madrid.«Sarò ancora il migliore».

A Madrid si aspettano che ripeta il “miracolo” di Milano.«Se le cose cominciano bene finiscono bene».

Che cos’ha provato mentre alzava per la seconda volta la “Coppa con le orecchie”?
«La voglia di alzarla per la terza volta. Tre Champions con tre squadre diverse: l’unico»

Sono state uniche anche le reazioni dopo la finale.«Si sapeva che era la mia ultima partita con l’Inter».

L’Italia non l’ha mai amata«Non mi hanno perdonato di avere dato autorevolezza all’Inter, che in termini mediatici è dietro il Milan e per il tifo viene dopo la Juventus».
Il giorno più bello di quest’anno “special”?«La promozione di mia figlia Matilde jr».

lunedì 27 settembre 2010

FAQ (risposte alle domande più frequenti) sulla Tessera del Tifoso, la nuova carta al servizio dei veri tifosi


Breve riepilogo di cos’è e cosa c’è da sapere sulla tessera del tifoso che sarà obbligatoria da questo campionato di calcio, per acquistare l’ abbonamento alla propria squadra del cuore di Serie A, B e Lega Pro e andare in trasferta nel settore ospiti di ogni stadio.
  • Cos’è la Tessera del Tifoso
    La Tessera del tifoso è un nuovo strumento di “fidelizzazione” adottato dalla società di calcio.
    Il progetto pone l’obiettivo di creare la categoria dei “tifosi ufficiali” che diventano i veri protagonisti dell’evento sportivo.
    Tutti i dati personali comunicati dai tifosi sono conservati solo dalle società sportive e utilizzati (nel rispetto della legge sulla privacy) per promuovere servizi e vantaggi per tutti i tifosi di calcio che vanno allo stadio.
    E’ valida in tutti gli stadi senza distinzione tra i vari campionati nazionali.
    La tessera è rilasciata, su richiesta, dalla società sportiva dopo il ‘nulla osta’ della Questura competente.

mercoledì 4 agosto 2010

Rio de Janeiro Maravilhosa e perigosa

«Cuidado». Basta dire a un brasiliano che si sta andando a Rio de Janeiro che parte la cantilena. Tutti mettono sull’attenti, tutti dicono la stessa cosa. Cuidado, attenzione, ad andare in giro con la macchina fotografica. Cuidado ai gruppi di ragazzini per strada. Cuidado a dove vai la sera. Cuidado a questo e all’altro. Insomma, c’è da stare attenti. Ma sarà vero? Una delle guide turistiche che va per la maggiore nel capitolo sulla sicurezza avverte: «Vestite in maniera dimessa, lasciate a casa orologi, occhiali da sole e tutto quello che può sembrare caro e costoso. Portate con voi il contante che vi serve per la giornata, di notte usate i taxi ed evitate di camminare nelle strade vuote, o lungo le spiagge». Ma spesso queste guide esagerano, quasi poi volessero essere libere di dire: «Io l’avevo detto». Al Castelinho 38, un albergo ricavato da una ricca casa borghese nel quartiere bohémien di Santa Teresa l’addetta alla reception sorride quando le si chiede se nella zona ci sono pericoli. La scoscesa via di accesso è sorvegliata da una guardia giurata. Armata di radiolina vigila su chi entra e chi esce. Un’altra sta seduta su una sedia all’altro capo della strada, trecento metri più in cima. «Qui pericoli non ce ne sono», dice. «Qualche volta di notte si sente qualche tiroteio, ma oramai sempre meno», aggiunge. Tiroteio è una parola da tenere a mente quando si parla di sicurezza a Rio. Vuol dire sparatoria e può capitare che ogni tanto, in sottofondo, si senta. «Le favela qui vicino, quella di Santo Amaro, è tranquilla», assicura. Quindi qui si può andare in giro senza problemi? «Se non sbagli strada e non entri nella favelas». E come si fa? «Le riconosci subito, le favelas. Basta stare attenti». Attenti, perché Rio, la cidade maravilhosa, è anche città perigosa. E si avvia ai due grandi eventi che ospiterà nei prossimi anni – Mondiali 2014 e Olimpiadi 2016 – con un grande problema da risolvere: la sicurezza. Lo dice il senso comune della gente con cui parli per strada, ma lo dicono i numeri, scarni ed essenziali come un carioca difficilmente riesce a essere. In città si regista un tasso di assassini di trentasei ogni centomila persone. E il novanta per cento dei casi rimane irrisolto. Nel solo 2008, oltre cinquemila persone sono morte di morte violenta, di cui 1188 – sostiene una ricerca di Humans right Watch – per mano della polizia. Un dato esorbitante, che la dice lunga sul livello di violenza della città. Del resto le operazioni di polizia all’interno delle favelas rispondevano allo schema "entra, spara e vattene" portato avanti dagli uomini del Bope, il battaglione di polizia militare per le operazioni speciali. Coperti da elicotteri e vestiti di nero facevano irruzione armi in pugno, sparavano (spesso ferendo civili) e andavano a cercare i trafficanti di turno che reagivano con un arsenale bellico che va dalle granate agli Ak-47. Solitamente queste sortite si concludevano con tiroteiro che lasciavano per terra diversi morti, da un lato e dall’altro. Una vera guerra giocata con armi pesanti. In ottobre, dieci giorni dopo l’assegnazione dei Giochi olimpici alla città, in un finesettimana di scontri un elicottero della polizia è stata abbattuto con dei lanciarazzi. Ma le cose stanno cambiando. Le cronache raccontano di una città in fermento. Di giorno camminando per strada nei quartieri alla moda di Leblon e Ipanema non sembra di stare in una città assediata. Certo, le case della classe media sono chiuse da cancelli che sembra di entrare in banca. Molte hanno un portiere o un servizio di vigilanza privato, ma passeggiando non ci si fa troppo caso. Si capisce invece che, complici la buona congiuntura economica del Paese e gli eventi in programma, in città stanno arrivando i soldi. Così Rio si sta riprendendo dalla crisi in cui era precipitata dopo che nel 1960 la capitale venne spostata nella neonata Brasilia.

Per anni la città venne mal amministrata, mentre crescevano esponenzialmente violenza e numero della favelas. La prima risale al 1888, anno in cui in Brasile venne abolita la schiavitù. Divenuti liberi, gli schiavi non avevano alcun posto dove andare a vivere se non costruirsi baracche sulle scoscese colline della città o ai bordi delle paludi di mangrovie. Baracche che poi sono diventati interi quartieri, il più delle volte sorti a ridosso delle zone eleganti della città. «Ma siccome Rio fa parte del Brasile, ha sempre mantenuto queste disparità», scrive il giornalista carioca Ruy Castro. Trent’anni fa le favelas erano trecento; dieci anni fa ne sono state censite seicento. Oggi si dice siano circa un migliaio, in cui vive circa un milione di persone sui sei che popolano Rio. In queste zone lo Stato per anni è stato completamente assente. I gruppi di trafficanti – quelli che si spartiscono la città sono il Comando Vermelho, Terceiro comando puro e Amigos dos amigos – imponevano il proprio sistema di giustizia, le proprie leggi e il proprio ordine. Bastava rispettarlo per vivere tranquillamente. Alle gang negli anni Novanta si sono aggiunte anche le milizie formate da poliziotti e pompieri corrotti. All’inizio erano agenti che fuori dall’orario di lavoro formavano squadroni della morte per fare pulizia nelle favelas: in cambio di denaro offrivano protezione dai trafficanti. Protezione che in breve diventava oppressione, al punto che un centinaio di favelas sono oggi controllate da questi squadroni di poliziotti divenuti trafficanti a loro volta. Tutto questo rendeva – e rende – Rio una della poche città al mondo dove interi quartieri sono controllati da forze armate che non fanno capo allo Stato. Adesso il governo promette di occupare con le buone quaranta favelas entro il 2014, quando al Maracanã si giocherà la finale dei Mondiali. Non è molto, ma è qualcosa. Serve a migliorare le condizioni di vita di migliaia di abitanti della città, ma serve anche a rassicurare le istituzioni internazionali che Rio è sicura per gli atleti e per i visitatori. L’arma del governo sono le Upp, un acronimo che sta per Unidades de polícia pacificadora, ovvero poliziotti che parlano invece che sparare, che in Brasile non è scontato. Si tratta di giovani appena usciti dalla scuole di polizia, che ricevano un addestramento specifico in diritti umani e gestione delle comunità, oltre a un bonus mensile di cinquecento real che permette di aumentare lo stipendio di quasi il cinquanta per cento.

Il programma è iniziato a fine 2008 e per adesso funziona. Nel primo distretto dove è entrato in vigore, il morro di Santa Marta nella zona sud della città, gli omicidi sono diminuiti dell’ottantadue per cento nel primo anno. Nel corso del 2009 è stato esteso ad altre otto favelas per un totale di centoquarantamila persone interessate. Tra queste comunità anche la Cidade de Deus, divenuta famosa nel 2002 per via del film di Fernando Meirelles che raccontava le violente avventure di alcuni ragazzini che governando lo spaccio prendevano possesso della zona. Qui 326 poliziotti comunitari cercano di imporre un po’ d’ordine a un agglomerato di quasi quarantamila persone. L’obiettivo non è estirpare il traffico di droga, ma almeno evitare che la gente giri armata. «Il nostro problema più grande è il fucile», ha spiegato il segretario delle Sicurezza, José Mariano Beltrame. Solo quando all’ingresso della favelas non si troveranno più ragazzini in infradito e pistola automatica che controllano chi entra lo Stato potrà cercare di stabilire all’interno della favelas quel minimo di servizi pubblici degni di un Paese civile. Il prossimo passo sarebbe quello di concedere titoli di proprietà delle baracche e del terreno sul quale risiedono agli abitanti della favelas, in modo da poter avere un domicilio e legalizzare la propria situazione. Un’idea rivoluzionaria presentata dal presidente Lula all’inizio del suo mandato e in parte rimasta impastoiata in questioni giuridiche. Intanto i lavori per le Olimpiadi del 2016, oltre che per migliorare la viabilità, si concentreranno nei quartieri nobili, come Copacabana e Barra da Tijuca. Ma parte del denaro servirà anche per pavimentare, illuminare e risanare le favelas. A cominciare da quelle che sorgono a due passi da questi quartieri. Insomma, in futuro bisognerà ancora ter cuidado" nel girare per Rio de Janeiro, ma qualcosa sta cambiando.

martedì 3 agosto 2010

Baggio torna in azzurro ma non si sa perché

Roby Baggio? Proprio lui. L’uomo dei 205 gol in campionato, il Pallone d’Oro del 1993, il vicecampione del mondo del ’94. Tra poco interromperà il mestiere di pensionato giovane per cominciare a 43 anni un’altra avventura, quella al vertice del Settore Tecnico della Federcalcio. 

La notizia che sembrava uno scherzo, poco più di una battuta cialtronesca all’indomani del disastro Mondiale degli azzurri, oggi verrà invece ratificata e resa ufficiale dal Consiglio Federale. Inizia così il futuro del pallone nazionale: volti nuovi, a tutti i costi. La competenza? Chissà. Per ora l’importante pare essere improvvisare, rinnovare. E si comincia da un ruolo che pochi sanno a cosa serva, Baggio compreso. «Sarà un’esperienza impegnativa, ma spero divertente - ha sussurrato l’ex divin codino lasciando ieri gli uffici federali a Roma -. Il mio ruolo? Ci sono tanti settori di cui si deve occupare il settore tecnico, però ci vuole un po’ di tempo e bisogna capire tante cose...». Anche in merito ad eventuali poteri decisionali, Baggio ha preferito non sbilanciarsi: «Non lo so ancora, vedremo...».

Le certezze sono solo due. Che prenderà il posto di Azeglio Vicini, proprio l’uomo che lo lanciò in azzurro vent’anni fa. E che per fare il presidente del Settore Tecnico basta essere stato un grande campione, ed essere andato a caccia di anatre negli ultimi sei anni. A questo infatti si è soprattutto dedicato Baggio da quando ha smesso di dare del tu al pallone, in quel Milan-Brescia datato 16 maggio 2004.

Le due ore di incontro ieri in Figc non sono state di trattativa. Non ci sono soldi in ballo, nessun ingaggio da concordare. Perchè per presiedere il settore tecnico non si prende un euro. Semmai il problema sarà quello di costruire un progetto, uno staff, una sfera di intervento. E prepararsi ad indicare le linee guida per gli allenatori italiani. Non uno scherzo insomma. Soprattutto se a presiedere la struttura sarà uno che allenatore non è mai stato e che inizierà proprio a settembre il corso a Coverciano. A Baggio insomma la Federcalcio fa guidare un’automobile prima di assegnargli la patente. 

Il tutto con la benedizione (anzi la raccomandazione) di Renzo Ulivieri, grande sponsor del rientro di Baggio in azzurro. Proprio Ulivieri, presidente dell’Assoallenatori, uno che (giustamente) ha sempre fatto il tignoso sui patentini degli allenatori, pretendendo il rispetto delle regole e dei ruoli. «Quello di Roberto Baggio al settore tecnico - ha precisato Ulivieri - sarà un ruolo attivo e operativo: non sarà un uomo immagine. Il suo lavoro sarà impegnativo e faticoso, avrà potere su tutto quello che riguarda il settore tecnico ma chiaramente non influirà sulla gestione delle nazionali». 

Ad occhio e croce dunque più fumo che arrosto, ma anche per fare fumo occorre essere capaci, o almeno meritevoli. Forse basterebbe qualcuno che spiegasse perchè invece arriva una nomina senza requisiti. Ma in questo calcio, forse, è pretendere troppo.

sabato 31 luglio 2010

Lega Pro senza soldi: 36 squadre rischiano di non iniziare il campionato

Alcune società faticano a pagare gli stipendi ai calciatori e i tifosi del Venezia lanciano una sottoscrizione per salvare il club
I campionati della Lega Pro (ex serie C) dovrebbero essere le fondamenta del calcio italiano, ma in questa estate post Mondiale sembrano più che altro pali malfermi di decrepite palafitte. Su 90 squadre, 17 non saranno al via del prossimo torneo, nella maggior parte dei casi per problemi economici: otto hanno rinunciato a iscriversi, altre nove sono state bocciate dalla Covisoc, l’organismo che controlla i conti (disastrati) del pallone italiano. Non è finita: al momento sono escluse per inadempienze varie altre 19 società, che hanno presentato ricorso. Deciderà venerdì il Consiglio federale se accoglierlo o meno. Alle non iscritte vanno aggiunte anche Ascoli e Ancona, in teoria inserite nella serie B 2010-2011: se la prima dovrebbe essere in grado di sanare la sua posizione, la seconda è appesa a un filo per non aver presentato nei termini la fideiussione richiesta e la documentazione relativa agli adempimenti previdenziali.

Insomma, un disastro. L’Italia del calcio risente eccome della crisi e vede sparire piazze di provincia, ma anche e soprattutto pezzi di storia. In pochi mesi sono scomparse Mantova(nell’anno del centenario), Perugia e Rimini. Le prime due travolte dal fallimento, la terza perché la cooperativa proprietaria si è stancata di andare avanti e ha messo in vendita il club. Morale, non è spuntato nessun compratore. Rischia grosso anche la Salernitana, mentre in SardegnaOlbia e Alghero hanno già chiuso baracca e anche la Villacidrese si trova in cattive acque. In Puglia si sono dissolte Gallipoli e Monopoli.

Altro che business, il pallone ormai è un giochetto costoso e insostenibile. A Mantova Fabrizio Lori era apparso nel 2004 come un messia in grado di spingere la squadra a lottare per la serie A. Nel 2006 i virgiliani avevano addirittura battuto la Juventus. Meno di quattro anni dopo, fiaccato dai problemi economici delle sue aziende, Lori ha dovuto gettare la spugna. Dietro restano solo macerie: il nuovo Mantova, grazie alla norma che salva il titolo sportivo delle squadre con grande tradizione calcistica, ripartirà dalla serie D. Stessa sorte per il Perugia.

A dipendenti e tifosi non restano che rimedi estremi: i giocatori della Triestina hanno rinunciato agli ultimi stipendi per salvare il club, mentre i supporter della Cavese hanno dato il là a una colletta per raccogliere i soldi necessari all’iscrizione. Simile la trovata dei tifosi del Venezia, che hanno appena lanciato una sottoscrizione popolare per aiutare le casse del disastrato club. Due fallimenti negli ultimi quattro anni l’hanno fatto sprofondare tra i dilettanti. Ora il Venezia United vuol essere il primo esempio di public company applicata al calcio: dieci euro a testa per la tessera, con l’obiettivo di raccoglierne almeno 300 mila e ridare ossigeno alla squadra.

E pensare che nel 2008 la nascita della Lega Pro era stata annunciata tra squilli di tromba dal suo presidente Mario Macalli. Sono bastati due anni per capire che si era trattato solo di una verniciata a un palazzo che già crollava a pezzi. Poche risorse per troppi club, cui si è aggiunto uno scarsissimo appeal per sponsor e spettatori. Laddove non arrivano le pay tv, è difficile trovare i soldi per pagare gli stipendi a fine mese. È una situazione che espone a un rischio concreto: personaggi poco puliti potrebbero proporsi come salvatori per farsi pubblicità o, peggio, per riciclare denaro sporco.

I problemi derivano anche dal gigantismo del calcio italiano. Le squadre professionistiche sono tante: in tutto 132 contro le 92 dell’Inghilterra, le 56 della Germania, le 42 della Spagna e le 40 della Francia. La Football League inglese, l’equivalente della nostra Lega Pro, va a gonfie vele anche perché conta solo 48 squadre. Poche ma buone, in grado di fare il pieno di spettatori a ogni partita. Così uno dei primi rimedi per guarire la Lega Pro potrebbe proprio essere quello di applicare una robusta cura dimagrante ai campionati. Magari evitando anche i ripescaggi.

domenica 25 luglio 2010

Un popolo di allenatori, ma precari


Sessanta milioni di ct, quando gioca l’Italia, ma siamo proprio il paese degli allenatori: 15mila associati all’Aic, 40mila complessivamente sono in attività nelle categorie legate alla federazione, compresi i settori giovanili, senza considerare le migliaia di tecnici dei campionati amatoriali, Csi e Uisp. Tanti “mister” hanno anche un altro lavoro, ovvio, però chiunque spera di affermarsi, di vivere di calcio, seguendo le orme magari di Arrigo Sacchi, nell’82 ancora alla Primavera del Cesena e 5 anni più tardi alla guida del Milan stellare.


«La nostra battaglia - racconta Renzo Ulivieri, 71 anni, presidente dell’Assoallenatori - è per avere un tecnico diplomato per ciascuna squadra. Adesso ne basta uno per l’intero settore giovanile, magari composto da ben dieci squadre. Passasse questa norma, si moltiplicherebbero i posti». È proprio così, si fatica a trovare spazio anche in panchina, come nella vita lavorativa comune. Non c’entra tanto la crisi economica, che unicamente sforbiciato i budget, ai livelli inferiori, è che l’Italia sforna allenatori o aspiranti tali a un ritmo insostenibile, tanto più se rapportato ai 132 posti nei club professionistici. «L’Associazione italiana calciatori (Aic) - sottolinea Ulivieri - è una libera associazione, non c’è obbligo di iscrizione, a differenza dell’albo del settore tecnico».

Insomma, Renzaccio rappresenta il sindacato allenatori con orgoglio e ardore. «Fra i nostri tesserati, 1.500 sono i professionisti, che hanno sempre svolto solo questa mansione. Pagano la quota annuale, anche se magari per varie stagioni di fila non sono operativi perché non hanno offerte o decidono di declinarle». Alcuni tra questi sono anziani, come Mazzone: «Mai dire mai - raccontava il “Sor Carletto” -, perchè devo mettere i manifesti e annunciare che smetto?.

Prima - riprende Ulivieri - a 65 anni il settore tecnico mandava in pensione, adesso si può restare in attività a oltranza: se uno ha voglia e trova chi lo chiama perché frenarlo? Ammetto che qui ho chiesto il cambiamento della norma anche ad personam... A tanti comunque piace restare legati alla categoria». Eugenio Bersellini ha 74 anni e nel 2007 tornò in panchina al Sestri Levante, in Serie D. Il presidente dell’Assoallenatori suggerisce proprio ai tesserati di scendere fra i dilettanti, anzichè restare inoperosi.

«Chi ha la qualifica di Seconda Categoria, ad esempio, è più bravo, teoricamente, di uno che ha studiato di meno». Altra priorità dell’Aic è l’accesso alla professione, da non riservare agli ex calciatori. «Dovremmo aumentare i corsi, abolire il numero chiuso. Come si fa a dire a uno che non si può iscrivere? Chiunque ha diritto, pagando, di frequentare e presentarsi all’esame, lì magari la promozione non è sottintesa». L’invito dell’Aic è di andare all’estero, come un lavoratore qualsiasi, perché è lì che può avere soddisfazioni superiori e stress inferiore. 

«La nostra scuola è importante, riconosciuta, si deve cominciare a lavorare fuori». Nevio Scala si è diplomato anche direttore sportivo, in Italia non allena dal ’97, Attilio Perotti, 64 anni, per una stagione e mezza è stato direttore tecnico del Piacenza. Un modo per reinventarsi una delle professioni più ambite e affollate. Siamo un popolo di allenatori è vero, ma precari.